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qua sotto c'è il meno peggio di quello che ho scritto nella mia vita, comprese le poesie che un pazzo mi ha dettato qualche anno fa e di cui si è persa ogni traccia.

Poesie
Racconti

Ma prima diamoci una spiegazione per tutto questo tempo perso... nel senso che nulla di ciò che viene scritto serve mai a qualcosa, a meno che non si tratti di ricette o di consigli su come coltivare il giardino.
Tutto il resto finisce nello sgabuzzino della nostra mente e lì quasi tutto viene via via polverizzato, esaurito, distrutto nell' "incendio della memoria" come molti si compiaciono di scrivere.
Il problema è che è tutto vero e le opere dei nostri predecessori, siano essi latini, scapigliati o cretini se ne vanno insieme ai nostri anni, lasciandoci alla meglio qualche traccia nell'altra pattumiera che sta dentro la nostra testa, quella dell'inconscio.
Soltanto in pochi sviluppano una coscienza letteraria, ed io non credo di essere tra questi, malgrado ci siano alcuni autori che mi hanno fornito coordinate essenziali, dentro le quali vivo ancora adesso.
Non starò a spiegare queste mie origini però perchè trovo davvero stucchevole parlare di stessi, lo fanno già in troppi; mi limiterò a dire che in tutta la mia vita, come non c'è un solo brano da me composto che non mi soddisfi, non c'è ancora stata una sola riga che ho scritto che si possa salvare, sono ancora alla ricerca della prima cosa ben fatta...
non vuol dire che siano tutte schifezze, ma solo che le parole probabilmente non forniscono il senso di ciò che non possono spiegare, mentre la musica sì, buona lettura.

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by Bluekowsky
Marco Riva
Clandestina libri
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Non c'è nemmeno bisogno
di essere ubriachi
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poesie
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Raccolte differenziate
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Blues52

Marco Riva
Blues 52 
                                                 by Bluekowsky


Questa raccolta, e altre qui pubblicate, mi sono state dettate direttamente da Bluekowsky  tra l’estate del 2016 e l'inverno del 2018.

Prima che possiate chiedervi “…..Bluekowsky?.....chi era costui?....” vi dirò subito che si tratta di un individuo in carne ed ossa, non il frutto della mia dissociazione dalla realtà, ed è tanto reale quanto la chitarra che una sera mi ha spaccato sul pavimento mentre tentava di suonarmi qualcosa senza riuscirci.
In realtà della sua vita non so quasi nulla, va in giro con un auto semidistrutta e mi dice di chiamarsi così, “Bluekowsky”, niente altro.
Non so se ha moglie, se ha figli, se è stato in galera, se ha ammazzato qualcuno; so soltanto che un pomeriggio, mentre stavo tornando da una passeggiata vicino casa mi si avvicinò e mi chiese “…tu suoni blues vero?...”.
E così iniziò questa strana amicizia, fatta di vere e proprie imboscate, spesso notturne, durante le quali Bluekowsky passa a cercarmi perché gli è venuto in mente qualcosa di importante che gli devo subito scrivere, sennò poi se lo dimentica.
Inutile chiedergli chi è davvero, da dove arriva, se sa scrivere oppure no; lui mi ha sempre detto che non può fissare i suoi pensieri da nessuna parte perché sennò svanirebbero dalla sua mente…
Così lo chiede a me, perché dice che tutto questo deve uscire da mani diverse dalle sue e che di conseguenza aveva bisogno di uno “scrivano” (mi chiama così), di qualcuno che custodisse da qualche parte tutto quello che ha in mente.
Io in realtà mi sento come un notaio che sta redigendo un testamento, un giorno glielo dissi pure e lui, facendo ciondolare la testa verso il pavimento mi disse a bassa voce “proprio così…”.
Ma se di lui come individuo non posso dirvi quasi niente posso dirvi tutto di quello che gli brucia dentro, del suo demone, dei blues di cui mi parla e da cui è ossessionato, della sua tagliente lucidità, del suo cuore che lui mi dice essere simile a un frutto marcito, pieno dei vermi che è convinto di avere in corpo e che butta fuori con le sue poesie, per poi lasciarsi andare a lunghe dormite sopra il mio divano, ormai pregno dei suoi vestiti sudici, delle sue sigarette e delle macchie di tutto ciò che riesce a trovare saccheggiando ogni volta la mia cucina, per poi ringraziarmi dell’ospitalità la mattina successiva e sparire stordito sopra il suo rottame, per chissà quali mete.
Questo è Bluekowsky, forse è un angelo, forse un assassino, io non posso saperlo, però trascrivo ogni sua parola e quando le rileggo penso che non avrei mai avuto il coraggio di scriverle certe cose, né di raccontarle a nessuno.
Ora è un po’ di mesi che non lo vedo ma tutte le volte che sparisce ho sempre  paura che sia finito in qualche roggia, in galera, o che sia morto... chissà se lo rivedrò;  comunque queste sono le sue poesie, ma non so se farete bene a leggerle.

Marco Riva
Mornico Losana, 5 settembre 2016

 

 

 

 

 

Qualche divagazione


Forse in quel periodo non avevo niente da scrivere, può darsi che fossi annoiato, stordito dall’afa e dal caldo, ma alla fine mi sono ritrovato questi blues sparsi tra i biglietti che camminano sul pavimento della mia casa, così me li sono letti: ….. sì, li avevo proprio scritti io, senza alcun dubbio.
Di conseguenza adesso dovrei parlarvi un po’ del blues giusto?... dei miei blues, magari per tentare di trovare qualche chiave di lettura, entrare tra le mie stesse righe e cercare di estrapolare qualcosa, una forma, un codice espressivo o cose del genere… ma questo non fa per me.
Chi dice d’intendersi di queste cose lo fa perché non ha mai scritto né suonato nulla e ha del blues un’idea stereotipata, come di tutte le cose che dovrebbero essere lasciate lì dove sono e invece vengono raccolte e portate in processione come reliquie, giusto per sentirsi i sacerdoti di “qualcosa”…
La realtà è molto diversa e c’è ben poco da dire : il blues non è altro che un pezzo di merda schiacciato sul marciapiede e mai nessuno dovrebbe toccarlo, studiarlo, guardarlo da vicino; ma la vanità umana non ha limiti e pur d’inventarsi qualcosa tutti s’inchinano davanti a questo feticcio maleodorante e lo adorano, come un miracolo del cielo.
In verità parlare di blues non ha alcun senso; il blues lo puoi comprendere soltanto se ci sei nato dentro, se il suo odore ti ha intaccato le narici e le ha rese sorde a tutto il resto.
E’ per questa ragione che spesso finisci per odiarlo, te ne vorresti liberare ma non ci riesci perché la sua forma rimane dentro la tua testa e non ci puoi fare niente; a volte cerchi di andarci d’accordo, altre fai finta che sia una benedizione ma sai di mentire, in realtà non c’è nulla che si possa fare per toglierselo dalla testa e nulla che si possa fare per “studiarlo”, malgrado eserciti di autoreferenziati laureati in cazzologie alla moda improvvisino salotti chic e convegni soporiferi dove si discute se il “mojo” rappresentasse l’uccello ritto oppure no.
Se proprio dovessi dirvi qualcosa del blues vorrei ricordare cosa mi disse tanti anni fa un vecchio DJ americano di nome Ralph: “blues is like a rainbow!” diceva…
cazzo, lui sì che aveva capito tutto…
Il vecchio Ralph usava il blues come musicoterapia e diceva di fare stare bene la gente; io gli ho sempre creduto perché il blues è anche quello che diceva lui, è la grande merda schiacciata che è arrivata fino al cielo e si è trasformata e da lì ti guarda, è la vita, con tutto il suo schifo e tutte quelle cose a cui non rinunceresti mai, il più fedele dei nastri dove tutto quello che facciamo viene registrato e non solo a certe latitudini.
In fondo non è che la banalità della vita, niente altro; se siamo qui a parlare di qualcosa che ha parvenza di musica, di questo blues che è nato inciampando tra le note è solo perché qualcuno, tra gli anni ’50 e ‘60 pensò di farci qualche soldo, s’inventò il revival, chiamò quelli che sembravano conoscerlo meglio e li sfruttò per quello che erano, negri, portando queste povere anime lontano dalle loro vite polverose ed esibendoli di fronte ai bianchi come già erano stati esibiti tante volte gli ex schiavi nella storia americana.
Inutile cercare di addolcire il blues (che è sempre meglio scrivere minuscolo), inutile tentare di costruire cornici intorno ai nostri amati maestri.
A molti di loro nessuno aveva insegnato né a leggere né a scrivere; suonavano, lavoravano e si stordivano con quello che trovavano, ogni tanto facevano pure fuori qualcuno, niente altro.
Tutto questo però fu sufficiente e così il blues diventò il giocattolo dei giovani bianchi della middle class, che ne fece ciò che noi oggi conosciamo e di cui parliamo sbavandoci addosso ormai da tanti decenni. Inevitabilmente tutto ciò che ne è derivato è stato pura decadenza, è rimasta soltanto la musica, magari ben suonata, anzi suonata benissimo ma sterile, spesso irritante.
D’altronde lo show business ha le sue regole e non c’è nulla che non finisca nel suo tritacarne, così il vernacolo è diventato lingua letteraria e le mode hanno fatto il resto restituendoci in forma caricaturale ciò che era stata la vita di milioni di persone, la vita vera di questi dimenticati da Dio.
In realtà l’essenza di questa cosa trasmigrò nella nebulosa acida del rap e lì riacquistò nuova forza, senza però ritornare più a casa, lasciando il blues come un guscio vuoto, un “genere musicale” e niente di più, per non parlare della sua deriva letteraria che se possibile subì una sorte ancora peggiore.
Alla fine il blues è diventato come una bella spilla da inchiodarsi sul petto e i concerti, non solo sul vecchio continente, sono diventati show sempre più kitsch dove tutta una umanità che non si capisce da dove sia venuta fuori ma tutta rigorosamente “per bene” suona note blues senza avere la più pallida idea di ciò che sta facendo, e questo proprio perché sta solamente suonandole quelle  maledette note, e la cosa peggiore è che lo sta facendo con le mani pulite.
Quindi, cosa cazzo è diventata ormai questa cosa che chiamiamo blues e perché io scrivo dei blues? 
Posso dirvi solo questo: io sono nato con la pelle bianca ma in realtà quelli come me sono tutti negri, e nessuno ci tirerà mai fuori dalla nostra condizione.
Il mio Delta è stata la periferia, la mia condizione sociale e tutto quello a cui i cazzologi blateranti non si avvicineranno mai.
Da queste parti abbiamo pure il nostro Ku Klux Klan, che qui si chiama in un altro modo e che se non ti appende a un albero è solo perché non ne ha bisogno, ma il ghetto esiste anche qua e te ne accorgi quando non hai nemmeno i soldi per comprarti due plettri.
Se c’è qualcosa in giro che si può chiamare ancora blues abita sicuramente tra questi marciapiedi, spalmato per terra, schiacciato nei polmoni e nelle vene di quelli che ti stanno intorno, zitti come topi.
E’ tutto qui… questi blues, 52 per l’esattezza, non sono altro che le mie incazzature, la mia acidità di stomaco, quello che pensi quando guardi troppo da vicino qualche ragazzina, il piano che hai in mente quando pensi a quelli a cui non l’hai ancora fatta pagare e a quello che rischi se poi ti fai beccare, il desiderio di purificare il mondo con un bell’ incendio atomico, la gioia di stare sdraiato in un prato in mezzo alle formiche, la speranza che la morte sia come l’inciso di una canzone, perché dopo c’è il ritornello e quello sì che è forte…
capito gente?...   
non parlatemi più del blues perciò, non parlatemene… non a me…..

un luogo, 14 giugno 2016 
Bluekowsky

 

 

I

C’è uno strano odore di bruciato nell’aria, 
come quando durante un bacio ti senti mordere la lingua
e vorresti guardarti intorno per vedere chi è stato.
Dalla finestra aperta
dietro a una batteria di grilli si sente filtrare un ritornello cretino
lontano.
Fammi un ritratto piccola luna che giochi tra i tetti
e dimmi quanto sono diventato vecchio, 
in questo frammento di cometa che chiamiamo vita.

II
Io non so se l’ora di punta é triste oppure no.
Non so di quanta gente ci si possa fidare,
di quanti volti emergono da un tavolo di marmo, quanti animali
quanti occhi sparpagliati tra i tovaglioli.
Mancano le cascate in città,
e luoghi dove morire in pace senza che nessuno ti seppellisca.


III
Il mondo è cambiato
tu sei cambiato,
quando ti sembrava impossibile che il tempo potesse trascinare anche te
e pensavi che alla fine ci sarebbe stato un lieto fine
da qualche parte, per qualcuno almeno.
E invece stai fissando una tovaglia a righe.
Qualche briciola abbandonata,
qualche goccia scivolata da un bicchiere:
in questo luna park di periferia le ragazzine fanno le loro prime esperienze
per poi lavarsi la bocca con lo zucchero filato.

IV
Vedi il gradino all’ultimo momento, 
e cadi con la faccia su di una scarpa abbandonata.
Qualcuno si avvicina, qualcuno ride
qualche piccione ti schiva
e tu sei l’uomo più ridicolo del mondo.
Una che si è chinata per sollevarti ti fa vedere il reggiseno
mentre il suo uomo si scoccia e le chiede di andarsene.
Sei convinto che l’abbiano appena fatto, lei è troppo gentile
e troppo preoccupata per te
“ti ha fatto godere quel buon a nulla vero troietta?” stai pensando.
Ma lei cerca di farti rialzare tenendosi la borsetta contro il corpo
e le gambe belle strette, per non farti vedere nient’altro.

V
A vivere con gli spiccioli si diventa saggi.
Si riesce a cogliere il valore dei fili d’erba
dei gusci di nocciola dimenticati sulle tavole dei bar.
Si può capire perché le donne vogliono sentirsi più belle di quello che sono
più giovani, più alte, più magre, più stronze.
Si può finalmente capire perché le formiche ci sopravviveranno,
perché i vermi ci sopravviveranno,
perché i nostri escrementi industriali ci sopravviveranno.
Io sono morto da quando non ho più osservato le curve del sole
e così lui si è dilatato in una macchia e mi ha fatto “marameo!”
A vivere con gli spiccioli si ha sempre molta fame
e quando trovi qualcuna disponibile te la devi fare sul divano sporco
perché lavarlo non si può.

VI
Ormai saranno tutti morti quelli con cui parlavo quando ero ragazzo,
quelli buoni, quelli cattivi, e quelli che non mi avevano fatto nessuna impressione.
Saranno piccoli frammenti di frutta nel frullato cosmico
Piccole bucce strappate dalla furia del tempo.
Dovessi rinascere tostapane folgorerò chiunque.

VII
Ci sono ragazze bellissime che stanno assieme a uomini bruttissimi
ragazze che non vogliono dolersi della vita e fare la fine delle loro mamme sfigate;
ragazzi che non avranno mai bisogno di lavorare
e che si trovano fidanzate befane e bisbetiche,
bambini nati per essere esibiti come borsette all’ora dell’aperitivo.
Le vedo in giro queste mamme ben vestite,
trombate dai mariti, dagli amanti e dagli amici dei mariti nei loro club privati,
gestiti da assassini e prostitute.
Piccola regina di provincia, finito il giro dei quattro bar dove tutti ti conoscono
ti senti di nuovo sola e sconsolata,
al freddo delle tue ossa.
Hai ancora le chiappette sode ma te le hanno strizzate tutti 
e con quindici anni di più ora assomigli troppo a tua madre.
Tuo figlio è un estraneo,
sempre chiuso nel bagno a masturbarsi
o impegnato a maledire te e tuo marito, il tuo tronfio marito…
sempre alla ricerca di qualche sniffata a buon prezzo tra i sedili dell’auto nuova,
quella comprata con i soldi dell’ultima casa che ancora avevate da vendere.

VIII
E alla fine dirai che la colpa è stata di qualcun altro,
che tu avevi fatto tutto quello che si doveva fare
e che se lo schifo che ti sei lasciato dietro ancora ti graffia i polmoni
è perchè gli altri non hanno saputo evitarlo
e si sono tirati addosso questa montagna di merda.
Gli occhi nello specchio sono proprio i tuoi, perché li guardi così sorpreso?
Il tuo respiro è un filo annodato a un cancello,
uno spillo nascosto nella scarpa di una fata adolescente.
No, tu non hai nessuna colpa
e ognuno laverà il proprio sangue senza fiatare, si terrà la rabbia e i rimorsi
come si tengono i gioielli in una scatola nascosta pure ai santi.
Non ti dolere di quelle cose che fanno arricchire gli analisti
hai le braccia più lunghe di quelle di una scimmia,
scappa sopra un albero e non scendere più.

IX
Vorresti un bel prato accarezzato dal vento
ma cammini tra i mozziconi e il vomito denso dei lounge bar appena chiusi.
I tram delle prime corse accompagnano a casa il meglio di una generazione
e scaricano al lavoro squadre di gente già morta.
Gli uffici del centro si risvegliano sbadigliando,
qualcuno tira un peto e tutte le finestre e tutte le porte ridono.
Il rettangolo di una pubblicità animata promette ricchezza sicura,
qualcuno strappa il suo gratta e vinci
altri comprano bibite gassate da un distributore.
Il sole si butta sopra la città come un marito sulla cognata più giovane
e se la sbatte fino ad aprirla in due come un libro di racconti erotici.
Qualcuno aveva letto mille volte le stesse pagine disarticolandolo
fino a non poterlo più chiudere,
proprio come le gambe della cognata.
I tram riscrivono i propri percorsi sul diario delle rotaie
fino a quando un grattacielo decide che è sera 
e i ragazzi storditi della notte precedente si rimettono le scarpe
e come zombie ritornano nelle stesse cattedrali,
spendono lo stesso denaro, dicono le stesse cose
si fanno gli stessi selfie
ma non si rendono conto che la catena dei giorni gli è già stata messa al collo
e se non la sentono è solo perché la testa è sempre più vuota e non risponde al colpo.
Dentro a ognuno di noi vive una piccola lumaca carnivora.

X

C’è sempre qualche insetto che ti vola intorno alla testa,
sarà che i tuoi capelli sono una discarica,
che la tua testa trasuda odio e commiserazione. 
Tappi di bottiglia
biglietti perduti per l’imperizia, monete fuori corso.
Saranno le macchie solari che si stanno restringendo, 
il ghiaccio che ritorna dai nascondigli
come un’unghia dai riflessi taglienti, bianchi:
ma ci sono anime incagliate in fondo alle pozzanghere
e sotto di esse laghi di fuoco;
gli angeli ci ballano sopra
cercando di capirci qualcosa.

XI

I monolocali delle prostitute sembrano sempre più piccoli 
e più sporchi di quello che sono.
Si sente respirare qualcuno anche quando sono vuoti.

XII
Puoi discriminare sopra una infinità di cose,
tranne che sui denti cariati.

XIII
Due stinchi spuntano da sotto una gonna,
due stinchi affusolati e lunghi
due stinchi da rosicchiare, tanto saporiti da tenersi le ossa per ricordo.
I velieri nella tua vasca da bagno affondano tutti,
lasciando di sé leggende e moscerini pirati.
Il pranzo è finito e i vestiti riprendono la loro forma sopra i corpi che li sostengono.
Bene, mio povero lupo mannaro,
come ci si sente dopo un corpo a corpo nella toilette
con un' 
impiegata divorziata di media età
che non sa che più che pesci pigliare coi suoi tre figli delinquenti?
Dille almeno di depilarsi se ci sarà una prossima volta.

XIV
Al buio delle nostre lanterne che bruciano polvere e denti.
La luce che non si può vedere con gli occhi, né bianca né rossa,
faccio due passi verso una pozzanghera
perché il fango non si esaurisce sotto le suole 
o quando ti sfoghi contro uno zerbino.
Pensando che dietro la porta un’altra giornata è stata azzerata.
Nel buio della tua camera da letto,
una bianca opalescenza ti esplode tra le dita,
disgregando corpi di donne per tutti gli spigoli della tua mente,
della tua pelle e di tutti i tuoi caleidoscopici intenti.

XV
In quale fondo di periferia ti avrò mai incontrata?
Gli anni si aggrovigliano e si arrendono
fanno la fila al supermercato e si spingono bestemmiando,
si tirano la coda e bevono dalle pozze.
La tua casa è una buca tra le rogge
e la tua voce si confonde tra le siepi e le campane di chiese scorticate;
la puntualità è tutto 
e le stelle riflesse dai grattacieli ricuciono il passato e il futuro 
stringendosi in una cicatrice.

XVI
Per la strada,
dove corrono le corde delle mie chitarre
dove il sangue sbuca dai tombini cantando canzoni di ubriachi.
Tra i porti segreti, la nebbia e i corpi delle prostitute per necessità,
le porte sbattute di case senza finestre, che ripetono la stessa trama
colpo per colpo.
Nel mezzo vi sono tanti piccoli insetti che divorano i minuti e le ore,
mentre il sonno si dirada e sbatte le ali chiamando il suo nido; 
e i fulmini ridono.

 

XVII
E i tuoi capelli, belli come i marciapiedi
hanno sempre viaggiato senza biglietto e volato sui fumi delle fabbriche.
Lasciano cadere rugiada e si sporcano i vestiti come fanno i bambini,
lasciano che il tempo si rivesta dell’oro rubato
e delle troppe foglie, l’oro nascosto del mattino
che di notte è cera.

XVIII
Che Dio perdoni i debitori
e ai creditori faccia venire il mal di pancia, e i denti gialli.
Non c’è spazio per chi mastica lacrime
è la vita che si trasforma in una treccia di coriandoli
e si riavvolge alla spirale della memoria, come un serpente al collo dei dormienti.
Il caffè è pronto e io mi posso riaddormentare
il sole è soltanto un’ albicocca; 
ho esaurito anche gli ultimi spiccioli
e la solitudine non mi conforta più.

XVIII
Certe volte vorrei dissolvermi;
come una bolla di sapone allungata dal vento, ma un vento rosso e freddo di rabbia.
Altre volte vivo e penso ai fianchi di donne di cui non ricordo né il viso né il nome.
Ma l’ombelico andava su e giù
mentre le stelle si appoggiavano ai vetri, per vedere meglio.

XIX
Ma sì mia coniglietta sfatta…
ti amo come un topo ama la sua tana
ti bramo come il lupo affamato
ti cerco tra i parcheggi, nelle stazioni e tra i cortili delle periferie
dove l’aria è grigia di bestemmie e di rabbia.
Ti cerco tra le coperte 
ti cerco sotto il cuscino, dove al mattino nascondo tutti i miei sogni e poi li brucio.
Ti chiamo con una nota,
una nota che non ha nome, né colore.
Ti bacio la schiena, tutta
e ti sbatto come meglio riesco, mentre il nostro sudore si mescola sulla pelle
e il tuo odore m’inonda la bocca, come una lumaca caduta nello zucchero.
Ti assaggio più in fondo che posso
mentre tu brindi senza bicchieri.

XX
Quando ti senti formicolare le dita
mentre il freddo picchia sopra la tua testa
e l’appiattisce.
Come una fetta di cocomero,
quando pensi che una casa ce l’avevi anche tu
e che c’era pure una donna dentro.
Seppure la ricordi vagamente, però ti amava;
c’erano tanti oggetti e tante altre persone di cui non ricordi assolutamente nulla.
C’era un muro ricoperto d’edera e ortiche dappertutto.
Hai ancora qualche moneta in fondo alle tasche e qualche appunto scritto a matita, illeggibile.
Le tue dita hanno camminato sulla pelle di quella donna
hanno dormito sotto il cuscino
stringendo i capelli persi sognando e invecchiando.
Guarda bene in fondo a quelle tasche, povero cerbero sdentato
che la vita ti sta sfottendo da dietro la gabbia,
dai lucchetti che ti sei stretto alle caviglie
quando ancora la schiena riuscivi a piegarla.
E anche se gli altri ormai sono tutti fantasmi dovresti impegnarti
e dare un senso agli ultimi secondi della tua vita d’insetto,
o di lombrico, decidi tu.

XXI
Quando le stelle saranno ubriache e cominceranno a togliersi i vestiti.
Soffieranno dentro le nostre bocche buie, 
sempre così piccole da non poterci neanche mettere una risata.
Quando i pesci cadranno per uno sgambetto
e copriranno tutte le nostre città, già morti.
Non c’erano che porte chiuse, sorde
per guardarsi meglio negli occhi e restare incollati alle scarpe,
sul catrame che ti ha morso alle caviglie e guardato male.
Tra le tue gambe le vespe ci hanno fatto il nido, e ridono
ridono come pazze, perché tu non te ne sei nemmeno accorta.

XXII
Randomizziamo, che il mondo è sempre così prevedibile…
buttiamoci in un lago di pietre
e scaviamo una tana per quando diventeremo lucertole.
Il tempo è un giocattolo, ce lo ha portato la morte;
ci ha insegnato ad usarlo 
ma vuole pure essere pagata, 
vuole pure essere pagata.

XXIII
Mano sinistra sul volante,
mano destra tra cambio e ginocchio,
tra cambio e coscia, tra cambio ed elastici,
tra cambio e inguine, tra inguine e peli
e pelle, e palle.
Mano sinistra sul volante
mano destra sulle banconote,
mano destra che richiude la portiera,
mano destra che saluta con il medio alzato
(le luci degli abbaglianti sezionano i corpi sul marciapiede
lasciando scarpe da una parte e glutei dall’altra).

XXIV
Quando ancora si poteva pregare
il pane sembrava più bianco delle nuvole
e gli insetti morivano senza rimpianti.
A quei tempi la fame me la portavo a letto 
come una verginella, 
ma era lei che mi faceva addormentare, 
mi strizzava lo stomaco e mi faceva ridere.
Si poteva credere alle buone e alle cattive azioni
e il paradiso era una vacanza a buon prezzo, 
con quel’odore di salamella che se solo ti viene in mente t’impregna ancora i vestiti,
le urla dei bambini dietro a un pallone, le donne seminude, alcune abbronzate
altre a strisce
Ma è buio adesso e i Santi ormai me li sono giocati a carte,
un sacco di tempo fa.

XXV
Sono queste melodie di rotaie,
il filo che stringe le palpebre e che ti fa sognare.
Gli anni spesi a camminare, a seminare polvere
perché la vita è una palla di sangue, e venderla non si può.
Lascia le tue note in un barattolo e slacciati i pantaloni.

XXVI
No, il cielo non è uguale per tutti;
per le falene intrappolate dalle lampade
e i boschi incendiati, 
l’acqua che restituisce rabbia
e canta, canta e si nasconde tra le foglie.
Tutti i bambini morti con gli occhi aperti
fra le gambe delle nostre guerre, 
partoriti mentre una nuvola s’aggiustava il cappello:
tutte le guerre giuste,
tutte le guerre che verranno ad asciugarci le lacrime, 
tutte le canzoni che non raccontano nulla,
e che ci piacciono da impazzire.

XXVII
Tutto da perdere, tutto da dimenticare
tutto moltiplicato per nulla, tutto inutile e troppo costoso.
Tiramelo fuori piccola fata, e cantagli una ninna nanna,
il sole s’è incagliato all’orizzonte
e le stelle si sono nascoste.
Raccontami una storia
raccontami delle tue labbra e di come la hai coltivate,
ora che sembrano pomodori.

XXVIII
Non fare capricci, che non siamo nemmeno amici.
E non mi svuotare il frigorifero, mangiati le unghie sa hai tanta fame
io nemmeno la buccia delle patate ti posso dare.
Ma che cazzo ci facevi svenuto tra le rotaie,
gran pezzo di rotto in culo?
Credevo che fossi una donna, e invece sei un finocchio con la pelle scura
e i peli più lunghi dei miei.
Puzzi come una cloaca
e devi avere addosso più malattie tu di un lazzaretto;
non capisco nemmeno quanti anni hai,
ma ti sei bruciato il cervello, i capelli, gli occhi: perché sei ancora al mondo?
E fatti una doccia, che almeno l’acqua ce l’ho ancora, finchè pago.
Così potrò guardarti meglio, e capire se mi fai ancora schifo,
potrò capire chi dei due sta peggio
e chi ha il diritto di dormire sul petto dell’altro.
La notte è così stanca che vuole la sua parte
e noi siamo gli uomini più belli del mondo;
la scherma delle nostre erezioni vuole le sue ombre cinesi.

XXIX
Ecco il richiamo della giungla:
ascolta la rana selvaggia che è in te.
Il culino adolescenziale che stai guardando da più di un’ora non lo sfiorerai mai, fattene una ragione
c’è uno smartphone incastrato nella tasca tra di voi.
Scordati le spiagge e gli ombrelloni
e i jukebox che facevi suonare con le monete da cinquanta lire.
Continui a chiederti  “ma avrò scopato abbastanza?...”
e poi cerchi pure una risposta
che spesso trovi dentro un panino al formaggio,
quando la notte ti svegli
e la fame è l’unica fata a cui puoi rivolgere una preghiera
ma che malgrado le tue insistenze, non uscirà mai con te.

XXX
Vedi il gradino all’ultimo momento, 
e cadi con la faccia su di una scarpa abbandonata.
Qualcuno si avvicina, qualcuno ride
qualche piccione ti schiva
e tu sei l’uomo più ridicolo del mondo.
Una che si è chinata per sollevarti ti fa vedere il reggiseno
mentre il suo uomo si scoccia e le chiede di andarsene.
Sei convinto che l’abbiano appena fatto, lei è troppo gentile
e troppo preoccupata per te
“ti ha fatto godere quel buon a nulla vero troietta?” stai pensando.
Ma lei cerca di farti rialzare tenendosi la borsetta contro il corpo
e le gambe belle strette, per non farti vedere nient’altro.


XXXI
Non ti sei innamorata di me perché non hai il senso dell’umorismo.
La tua vita è peggio di un cartone animato, è un videogioco.
Al di sotto della terza misura non dovrebbero esistere donne:
non ti sei invaghita di me perché non hai le basi del calcolo infinitesimale,
e non sai contare nemmeno con le dita.
No, non ci sono scuse per te
il tuo cuore è sempre stato un centrino all’uncinetto.

XXXII
E’ come quando liberi una tartaruga in un lago,
sperando che viva il più a lungo possibile.
Le mani che toccano la tua schiena
e le voci che provengono da un bar.
Salgono sui muri della tua casa
e strisciano al di sotto delle imposte chiuse, come l’odore stantio di una cantina.
Ci hai chiuso dentro la tua maschera di bambino, e le tue prime parole.

XXXIII
Non so nulla di te.
Ti osservo soltanto e cerco di immaginarmi come sei fatta,
com’è la tua pelle, il tuo odore.
Forse non ti depili nemmeno, forse la sera bevi qualunque cosa 
e vai a letto ubriaca.
Sognando tutto quello che avevi desiderato
quando magari avresti ancora potuto ottenere qualcosa.
Ma che ne so io?
Che sono qua sotto, sul marciapiede
cercando di indovinare dalle ombre come è fatta la tua vita,
fino a quando non spegni anche l’ultima luce,
facendomi sentire né più né meno di quello che sono.
Ti dovrei ringraziare,
e invece sto cercando di anticipare le tue abitudini
con la mia tecnica di predatore arrugginito.
E’ vero, so anche come ti chiami
e magari qualche volta proverò a suonare il tuo citofono, chissà
forse potresti aprirmi
farmi anche salire, a chi importerebbe di due scarafaggi come noi?
potremmo bere e scopare tutta la notte, scambiandoci le nostre infezioni
e tutte le schifezze che abbiamo raccolto vivendo tra le discariche del mondo
in mezzo a quelli come noi, che credono che con un paio di docce al giorno
si possa essere candidi anche dentro, dove l’anima 
è il filtro di una aspirapolvere pieno di tutto ciò che vorremmo fare sparire
ma che nascondiamo solamente più in profondità.
Dai, aprimi il portone, slacciati il vestito
nessuno meglio di me potrà perdonarti la tua pelle vissuta
e i tatuaggi distrutti dal tempo.
I miei invece si sono trasformati
e dove c’erano fiori oggi ci sono piccoli teschi, sfocati e incerti
che mi guardano dagli avambracci, come ti guarda un neonato.

XXXIV
Ora non so, non so se pensarti e farmi venire una crisi di nervi
o se immaginarti come una madonna tra i rovi 
con una luce gentile intorno al volto.
Non so se morire oggi
o aspettare una mattina piovosa,
in cui il commiato alla vita potrebbe risultare più malinconico.
Vorrei ammazzare tutti i cacciatori
e riportare in vita tutti gli animali uccisi per soldi o per diletto.
Ora non so,
se le mie radici nascoste avranno ancora efficacia tra queste spiagge morte
o se le parole prese in prestito dai rifiuti della memoria
saranno sufficienti a non farmi pensare.
Le luci artigianali tagliano le città per traiettorie incomprensibili,
e le stelle ci cascano dentro.

XXXV
Hai scritto le tue memorie sopra il tavolo sudicio di un’osteria
alla periferia del mondo,
dove la vita e la morte si prendono per mano confondendosi l’una nell’altra.
Hai pianto quando c’era da piangere
e odiato per tutto il resto del tempo,
hai vissuto appeso a un gancio da macellaio e corso fino a sfinirti.
Mentre ogni finestra ti mostrava che dietro c’era vita,
magari squallida, magari oscena
venduta e poi cancellata
forse la migliore vita che avevi mai sognato.
Hai pianto quando c’era da piangere
ma non hai mai finito odiare.

XXXVI
Perché dovrei imparare tutta la tua storia a memoria?
Se me la racconti entrerà dentro di me e non uscirà più.
Tutte le volte che ti sei ubriacata 
e l’hai fatto col primo che ti saltava addosso, senza nemmeno farti pagare.
I tuoi amici, le loro miserie, di sedile in sedile, di buco in buco;
perché dovrei imparare la tua storia?
D’inverno mi vesto pesante e cerco di non starnutire,
mi tengo lontano dai guai, e tu sei come una piccola crosta ancora umida.
Le nostre azioni non finiranno nel nulla, perché il vuoto non esiste
e il tuo ventre è un libro scritto col sangue.
Quello di tutti i disperati che hanno scambiato il loro con quello di altri disperati,
la catena che si salda nel tempo e lo ripiega.
No, insegnala a qualcun altro la tua sequenza sballata,
non porta a nulla
se non nel tuo labirinto ovarico – spazio/temporale
dove niente è più relativo e tutto viene oggettivato dalla tua pelle stanca
e dal trucco che non ti sta più su.
No, non la voglio sentire la tua storia
Le meraviglie dell’autoerotismo ci salveranno la vita.

XXXVII
Sono stanco dei poeti cazzuti, dei finocchi alla moda
delle luci arancioni delle periferie.
Ho una sola chitarra e la mia musica ci sta tutta dentro
come un sacco di viscere.
Piango senza lacrime perchè si sono indurite durante l'ultimo inverno
e adesso non valgono più niente,
piango senza convinzione 
perchè quando ci guarderemo in faccia e non avremo più un cazzo da dirci
allora,
forse solo allora,
saremo veramente felici.

XXXVIII

I poeti si vomitano addosso
si tagliano le vene e poi se le incollano,
si tingono i capelli col lucido di scarpe
perchè vivono al di sotto delle suole degli altri
e masticano ostie come chewingum.
I poeti saranno trasgressori a vita.

XXXIX

E' nel bianco degli occhi che ho nascosto le mie ultime sbronze
così assolutamente silenziose da sembrare preghiere.
Me le sono portate in giro raccontando storie oscene,
le ho ripiegate in quattro parti e rispedite al mittente
tra le carte dei tarocchi che ho dimenticato in un cassetto.
Dentro ad uno stagno,
il giorno in cui la mia chitarra 
mi ha legato alla rete del letto,
cacciandomi in gola tutte le sue canzoni peggiori.


XL
Se mai potessimo raccontarci come abbiamo fatto...
sarebbe come scartare una caramella e trovarci dentro un verme
per poi mangiarselo.
C'è una bella ciclista dal culo sodo al di là del mio parabrezza
ora le suono finchè si gira.
C'è una spirale di stelle sopra di me
e la fatica dei campi che suona il suo blues,
tra l'erba piegata dal vento.
Sotto le mie scarpe, tra le radici di alberi estinti
e la tristezza dei discorsi importanti.
Non c'è pace in questa bolla di sangue agitato,
le nostre mani sono troppo stronze.


XLI
Mica ti amavo perchè facevi la puttana meglio delle altre
al contrario,
ti amavo perchè eri la puttana più improbabile che avessi mai conosciuto,
e parlavi anche.
Sul tuo comodino c'erano le foto della tua famiglia,
piccole e opache, piene di gente morta.
Forse volevi che assistessero ai tuoi assoli orizzontali, non so...
eppure quella volta che non avevo nemmeno i soldi per pagarti
lo abbiamo fatto lo stesso, e sei pure venuta, lo so
perchè per la prima volta non dovevi fingere
e la tua canzone era tutta diversa.
Avrai fatto finta di avere un marito, dei figli, una casa, un po' di soldi,
come la piccola fiammiferaia che muore sognando, contenta.
Però noi ci siamo svegliati
e abbiamo lavato via la nostra favola con l'acqua del rubinetto
e gli asciugamani sudici che non cambi mai, 
la memoria intatta delle tue scopate, il tuo diario segreto.
Eppure una volta ti avevo regalato un fiore, uno solo
l'avevo messo dentro una bottiglia e te l'avevo portato
ma tu ti sei mangiata il fiore e ti sei seduta sopra la bottiglia,
andando su e giù.
Ecco perchè ti amavo,
una vera puttana non l'avrebbe mai fatto,
avrebbe riposto la bottiglia e il fiore con cura, 
ringraziandomi con un pompino, ma tu
nemmeno quello.

XLII
La mia casa è un bosco santo
è una mano piena di muschio e di gusci di lumache.
La mia casa è un punto in mezzo a un fiore, un punto all'orizzonte
un punto in classifica
un punto e basta.
Ringrazio le stagioni, che non hanno mai vinto niente
e i pascoli che vedo dalla mia finestra
quando il mio letto di vaniglia si spacca
e si richiude come un'ostrica arrabbiata e vana.
Anche le mie scarpe sono chiese consacrate
e dentro di esse tengo i miei ricordi migliori,
quelli fatti camminando per strada
quando non incontri nessuno 
e non devi rispondere nemmeno a un saluto.


XLIII
L'importante nella vita
è perdere tempo.

XLIV

Bell’affare hai fatto Blue…
Invece di dormire sulle panchine,
ricoperto di vomito dalla testa ai piedi
mi sono ritrovato in un letto pulito
morbido e bianco, come il corpo di una donna

invece di scopare come una bestia giorno e notte
fino a dimenticarmi il cazzo dentro qualche d'una
mi sono abituato a chiavarmi dei kleenex
guardando belle fighe alla tv

invece di fare il porco con le ragazzine
ho imparato a proteggerle da quelli come me.

Quando morirò
qualcuno dirà di me belle parole
e il mio volto rimarrà in eterno dentro un portaritratti,
sopra qualche comodino, da qualche parte

invece di crepare sul fondo di qualche vagone dismesso,
con le zecche a vegliare il mio cadavere,
come avrei meritato:

bell'affare hai fatto Blue...

XLV
Ho in mente la tua schiena soprattutto
e la tua nuca
il tuo culo sodo, bello
e la treccia che non disfavi mai.
Quante volte mi ci sono aggrappato,
mi hai fatto sentire il tuo cowboy
il campione dei nostri rodei con le finestre aperte,
mentre l'estate si rannicchiava tra le stelle
e ci faceva respirare un po'.
Oh certo, 
avevi anche un lato A
ma spesso è il retro il pezzo migliore, quello inaspettato.
Ti ho fatta suonare così tante volte
che anche i muri hanno imparato la tua canzone,
anche le piante del mio giardino
anche gli insetti che venivano a vederci,
e che ridevano di noi.
Ma la vita l’abbiamo chiusa in una bottiglia
e tu ti sarai trovata tanti altri cowboys,
vecchia baldracca da mungere.


XLVI
Mi spiace mia cara, 
ma poesie non te ne posso più scrivere
l'ultima carta l'ho usata per pulirmi il culo.


XLVII
Ti amerei anche se fossi un mostro,
e tu lo sei.
Ti amerei malgrado tutto,
e tu sei tutto ciò che malgrado me
non dovresti essere.
Ti amerei a suon di sberloni
ti amerei senza il condizionale.
Ti amerei e basta
ma le mie mani conoscono soltanto la curva dei tuoi fianchi
e il calore chi ci hai messo dentro, e tanto mi basta.
Che bisogno avremmo di amarci davvero?
Noi,
con le nostre teste di vipere.


XLVIII
Chiudi gli occhi e apri la bocca...
no, non me la slaccio la patta a tradimento
volevo solo farti assaggiare un po' delle mie note,
qualcosa di adatto alla tua lingua elegante
ai tuoi denti gentili che non mi hanno mai pizzicato.
Note gentili, 
piene di cose che guardo tutti i giorni, che penso
che desidero.
Come una foglia in più sulla facciata della mia casa
che fa così schifo da non poter neanche essere guardata,
un paio di scarpe nuove,
un po' di legno per riscaldarmi,
senza che debba piegare la schiena migliaia di volte per tutta l'estate.
Non che non voglia piegarla
però provateci voi, brutti stronzi di lettori
mantenuti e fancazzisti,
provate voi a raccogliere tutto come faccio io,
piccole fighette viziate.
Un po' di note, sì
un po' di note trasparenti, urgenti,
viventi, calienti.
Ok, puoi chiudere la bocca adesso.


XLIX
Bè, sì...
quando pompi...pompi...
sei brava, esperta, precisa
decisa al punto giusto,
e poi ti piace tanto, devo proprio chiedertelo:
ma dove hai studiato?...


L

Certo che mi sono rovinato la vita
e mi sono pure impegnato,
ce l'ho messa tutta
e ho fatto un capolavoro.


LI
Ma dove vivo?
Dentro quali scarpe cammino?
Sono sempre stato tante cose,
tutte in contraddizione tra loro
e così lontane da diventare quasi coerenti.
Ho lasciato i miei capelli sopra una collina
e le mie gambe tra i boschi di fronte alla mia casa.
La mia chitarra lungo un sentiero pieno di sassi
il violino sopra il tavolo di un osteria
la mia bocca sopra una quercia
e gli occhi a osservare le volpi e i tassi la notte.
Il mio affare invece
dev'essere finito in qualche comodino 
che non potrà mai più essere aperto,
perchè le chiavi me le sono perse dopo una nottata passata in macchina
tra le cosce inguainate di qualche travestito con la rogna.
E il cuore?
Dove cazzo l'avrò lasciato il cuore?
Con tutti i rottami che ci ho messo dentro
si sarà trasformato in una mela rancida,
capace di farsi sputare per terra 
anche dal più affamato dei clochard,
e di essere scansata pure dai topi.


LII
La notte è piena di finestre rotte.

Non c'è nemmeno bisgno di essere ubriachi

Marco Riva


Non c'è nemmeno bisogno di essere ubriachi

                                                                                         by Bluekowsky

 

 

 

Un'altra dettatura di Bluekowsky, misogino e infelice come sempre e forse, per quel che dice, pure stupratore

Marco Riva Mornico Losana, 5 settembre 2016

 

Ho sempre cercato di scoparmi più donne possibile, ma non ho mai avuto molto successo; questo testo raccoglie le mie frustrazioni e tutto l'odio che posso esprimere per queste creature incompiute e distorte.

 

un luogo, 18 ottobre 2017 Bluekowsky

 

 


I

Tuo marito non sa che vieni qui a succhiarmelo.
Sei beata fra le tue fantasie di camomilla,
e credi che lavandoti bene i denti 
il nastro si possa riavvolgere tutte le volte
e tutte le volte riordinare nel punto più oscuro della memoria, 
come una vecchia canzone stonata:
te lo dico io piccola zoccoletta dal culino spigoloso, 
a te interessa soltanto sentirlo fino in fondo,
perchè è in fondo alla vagina che ti è caduto il cuore.


II

Ho portato il freddo sulle spalle per così tanti anni...
era il mio vestito, la mia sciarpa grigia e azzurra
il mio cappello,
scambiato per una nuvola
quella volta che avevo dormito sopra la panchina più scomoda della città
mentre in milioni stavano cenando, 
assieme alle loro televisioni.
Non ci sono scale sul sagrato di queste chiese
nè preghiere che si possano esaudire
perchè hanno la data di scadenza,
e sono state dimenticate durante l'ultimo trasloco
vicino alle scarpe da buttare.


III

Anche stamattina farò colazione con le tue tette rigogliose di burro,
con la tua passera di marmellata.
Ti assaggerò 
e ti darò un voto
poi ti guarderò
e ti userò come un accappatoio.

IV

Cerca dentro le mie tasche bambina
vedrai che troverai il tuo smartphone,
è acceso e carico da scoppiare
pronto per essere strapazzato dalle tue manine veloci e secche.
Quanto valgono cinque minuti del tuo tempo?
Fatti un selfie già che ci sei
e portalo a tua madre
assieme al prezzo della tua adolescenza.
Vedrai che ti dirà ti tornare da me, chiedendomi di più però;
quella zoccola.....


V

Un tramonto dalle paglie arancioni e dai fili gialli 
che si propagano per il cielo
un cerchio di sole
e una mano che ci sorregge entrambi.

 

VI 

Abbiamo brindato dentro questi calici d'ossa
facendo schioccare le nostre lingue sopra i bordi affilati.
Abbiamo reso il sangue al vino e ci siamo presi le vite degli altri;
le abbiamo infilzate su di una bacchetta di vetro per vederle da vicino
per respirare la loro aria
le abbiamo cotte, assaggiate 
lasciate cadere come escrementi 
e fatte trofei.
Poi abbiamo brindato di nuovo e ricominciato da capo.


VII

Oh no, questa storia è meglio non raccontarla a nessuno.
Abbiamo vissuto ma ci siamo lasciati senza nemmeno guardarci
e abbiamo dimenticato tutto, 
la sera di un giorno qualunque, quando i negozi stanno per chiudere.
Anche oggi sono piovute bombe sopra gente che non doveva nascere
e di cui non possiamo condividere nulla,
se non le immagini perfette dei nostri telefoni
dove il sangue risulta brillante, 
e dove incollare la nostra pietà digitale non costa nulla,
perchè nulla c'è rimasto tra le mani.
Abbiamo vissuto come polli in batteria 
ma ci sembrava bello,
i giorni erano trottole e la fame nuotava nello stomaco
come una pinna di squalo.
Abbiamo spaccato le nostre vite e raccolto un succo trasparente,
la morte ci tira per le orecchie e noi nemmeno ce ne accorgiamo.


VIII

Hai una stella tra le dita,
mentre l'alba si schiarisce la gola
riprendendosi la notte come una banconota.
Stai seduta dove nessuno ti vede
e parli dove nessuno può ascoltarti,
se piangi lo sai soltanto tu
ma il tuo corpo è tracciato in una linea di vento
e balla come un aquilone.
La notte si schiarisce la gola
riprendendosi la luna come una moneta arrugginita
e tu riporti la tua stella nello stesso punto in cui l'avevi trovata,
prima che diventasse tua.


IX

Preziosa
come una costellazione appena sbocciata
lontana miliardi di anni da quello che è appena successo,
come quella volta che ti ho baciata e detto il mio nome,
dopo averti scopata a rovescio
e deciso che non mi piacevi nemmeno troppo.


X

Dopo ogni bombardamento l'umanità è morta:
l'umanità muore sempre,
e questi?...
questi che dicono tutte queste stronzate quando moriranno?


XI

Quando metteranno la mia faccia su di un francobollo 
sarò leccato da tutte le donne del mondo.

 

XII

La schiuma delle nostre lenzuola ci ha quasi soffocato
e la risacca ci ha graffiato di sabbia la pelle. 
Gli scogli sono federe dai fiori stampati,
ma il tuo corpo mi sta tutto tra le mani
come in una cesta di pane,
ancora calda e gravida.


XIII

Ogni tanto, quando il sole è spezzato tra le nuvole
il suono di qualche strumento nascosto nell'erba 
rimbalza tra gli insetti.
L'autunno si stira in uno sbadiglio,
come la mia vicina di casa in pigiama, 
che guarda tutto il giorno la tv
ed è sempre sola.


XIV

Li ho visti da dietro questa finestra.
Incerti, come una maniglia pericolante.
Girano a vuoto e disegnano cerchi nell’aria 
e bolle di non so quale natura e quale ingegno.
La mani dormono in fondo alle tasche
Opache e livide per gli anni, mentre i fulmini brillano in fondo all’orizzonte
ma restano muti perché troppo lontani, o pigri.
Abbiamo nomi, cognomi, vite e volti.
Gli anni che graffiano dietro le nostre spalle
e che si mangiano il tempo, i nostri capelli e la nostra pelle.
Noi che punteggiamo come sabbia le città,
dentro una rosa di polvere che non si può raccogliere.
Un gatto che dorme in un cortile è più reale di noi, 
e più di tutte le nostre certezze.
O incertezze, che spesso è la stessa cosa; sì
la mattina possiamo pensare a cosa dovremmo fare durante la giornata
e per una volta potremmo anche essere perfetti, 
ma il sole terminata la corsa si ritira dentro il suo pugno stellato, 
e nulla ci conforta 
e nulla ci potrà rendere ciò che abbiamo speso 
cadendo sopra questa crosta di latte, 
inconsapevoli delle conseguenze.
Li ho visti da dietro questa finestra e li ho toccati con lo sguardo;
ma tra di loro c’ero anch’io, aperto nella forma del mio riflesso
come un omino ritagliato nella carta, accanto a tutti gli altri.
Mentre i fulmini hanno preso forma di draghi e hanno cominciato a cantare 
rendendoci ciechi, volando di ora in ora fino all’ultima tacca dei nostri quadranti.
E’ questa la forma migliore per vivere
un cavallo che salta al di là della scacchiera, 
in una dimensione che dovrebbe essergli ignota.
Il suono del vento, spesso
nasconde quello delle prime gocce e le porta davanti alla nostra porta
ansioso di renderci la scoperta.
Anche questo ho potuto vedere da questa finestra.
Marciamo pure sui nostri marciapiedi, 
facciamo pure le nostre guerre per poi pentircene
guardiamo nello specchio il disegno familiare di queste bocche, dei nasi,
guardiamo gli occhi muoversi: sono i nostri!
Eppure, alla fine di tutti i discorsi, di tutte le idee
quando stiriamo le gambe e le braccia nel letto e il sonno ci rende giustizia
tutte maniglie del mondo scattano senza fare il minimo rumore
e tutte le nostre case si aprono come la carta di una caramella,
svelando ciò che avevamo accudito. 
Non c’è nulla nelle nostre case, né di buono né di cattivo.
Non c’è nulla nemmeno dentro i nostri letti, dove corpi inoffensivi 
aspettano il ritorno di grandi farfalle cosparse di nettare, 
le uniche in grado di farci risvegliare e ricordare i nostri doveri e i nostri desideri.
La notte rimane svuotata, come tutte le altre volte.


XV

La noia è un buco di cenere
senza passato e senza appuntamenti.
Potresti portartela fuori a cena, scopartela
e farle vedere i tuoi film preferiti
ma non ci caveresti niente.
La noia ha gli occhi acquitrinosi
e si veste con quello che trova al mercato,
le dici qualcosa e ti manda affanculo.
No, non me la sposerò mai la noia
ha il culo troppo duro per me.


XVI

Ho visto un tipo con le orecchie grandi come due pizze,
una al formaggio e l'altra al prosciutto,
magari non ci sente nemmeno bene
e scambia pernacchie per note.
Com'è facile scappare,
quasi come vomitarsi sulle scarpe.
Io non so più nemmeno quanti anni ho,
ma so che all'orizzonte spunteranno grandi artigli di drago,
e che il mondo finirà in un grande "porcozzzzzio!!!"
recitato in massa.
Altro che nuvole di zucchero,
la vita si è rimpicciolita come un maglione in lavatrice.


XVII

Non ero ubriaco quando ti ho chiesto di toglierti i vestiti
non ero arrabbiato con te
e non ti ho considerata nè brutta nè bella
nè buona nè cattiva.
Volevo soltanto farmi i miei comodi
senza che tu urlassi troppo.
Dopo gli avvoltoi 
soltanto i corvi riescono a mangiare tanta carne.


XVIII

Ci disegneranno una croce sugli occhi.
Come in un fumetto basterà girare pagina
e comincerà una nuova storia,
senza memoria di quella precedente
e senza nessuna malinconia.
Oggi è un giorno senza luna
e la vita vale un po' meno,
un altro neonato in un sacchetto
un'altra pagina da girare.


XIX

Com'era bello scrivere poesie surrealiste …
dormivo dentro fiaschi di vino, come una mosca ubriaca
e ci provavo con tutte.
La vita era un bacio nascosto in una tasca 
e subito strappato,
per non essere rincorso da mariti e fidanzati.
Era bello dormire sui prati,
con gli insetti che ti sfiorano 
e le stelle che ridono di te.
Cazzo... a un certo punto le bombe hanno ricominciato a strillare.


XX

Non bisogna mai guardare sul fondo dei bicchieri,
potresti ritrovarci il tuo passato, gli amici morti 
e quelli che non ti riconoscono più
ci sono le parole dei nonni
e quelle di mamma e papà,
come te le ricordi da piccolo.
Ci sono i primi baci
la paura della prima volta,
la paura della seconda,
della terza un po' meno
e di lì in poi, 
tutte le scopate della tua vita che vengono a galla
e ti fanno sentire una merda.
No amico, non guardare mai sul fondo del tuo bicchiere
questi stronzi di oracoli lasciamoli a quelli con le unghie pulite.


XXI

Fai schifo, sì 
fai schifo.
Sei grassa, vecchia, stupida
sì, 
fai schifo.
Dopo avermi passato la lingua dappertutto
ti fai un toast senza nemmeno lavarti le mani,
mangi parlando ad alta voce
e sputi briciole umide fino al letto sbrecciato,
come proiettili.
Ma io ascolterò il tuo respiro svanire,
ascolterò il tuo ultimo a solo
e farò del tuo corpo la tua bara
strizzandoti le tette come stracci.
Poi mi diventerà duro un’altra volta.


XXII

Senza sapere pregare,
con i pantaloni slacciati
e la faccia di chi chiede scusa.
Voglio stare al caldo nel mio letto
quando l'inverno è come una giostra di mani e di piedi,
un treno silenzioso
capace di diventare bianco 
e di andare in discesa;
bianco il cielo
bianche le ossa.

 

XXIII

Ho tirato le tende, ma dietro non c'era nulla
non c'erano nè stelle, nè pianeti, nè lune.
Però c'era il tuo riflesso 
appiccicato al cielo vuoto,
una crosta mal curata.
Il disegno di una pin-up d'ultimo ordine
sul vasetto di qualche schifezza spalmabile.
E poi c'erano i miei vestiti
e i tuoi vestiti, le coperte e le lenzuola sporche
e una processione di microscopiche scimmie
che dalla tua vagina facevano il giro di tutta la stanza
al suono di una piccola banda di scarafaggi nascosti in qualche cassetto, 
per poi arrivare a lambirmi le caviglie, facendomi un solletico urticante. 
Ho la testa di un mostro questa notte
fitta di tentacoli e di branchie atrofizzate.


XXIV

Vedo le nuvole correre dietro le montagne
e le montagne richiudersi come un foglio in una busta,
senza mittente e senza la minima colpa.
E senza che io possa afferrarti per i capelli
perchè sei troppo giovane e troppo veloce
e nemmeno tu sei colpevole;
sei l'ultima delle nuvole
e io sono il destinatario delle tue preghiere
e di tutti i "te l'avevo detto" di tua madre
che ora ti vengono in mente e ti squarciano la gola di rabbia.
E' inutile piangersi addosso,
perchè chi non lo sa fare non imparerà guardandoti.


XXV

Perchè maledire il passato?
Ci siamo noi dentro
come lucertole chiuse in una scatola.
Ci sono i marciapiedi, gli uomini e le donne che li abitano
i loro figli, e i nipoti che devono ancora nascere.
Meglio maledire il futuro, potremmo sbagliarci
e ritrovarci dentro una partita di curling;
potremmo indovinare 
e sbancare la banca degli angeli con un biglietto trovato per terra,
mentre stavamo cercando un angolo per orinare.


XXVI

Io non so se la periferia ha un odore particolare 
o se siamo noi a portarcelo.
Guidavo con il finestrino aperto, 
era notte e faceva freddo,
e quella puzza appiccosa mi scendeva nella gola, come un graffio.
La pelle del mio viso 
si era ritirata in qualche luogo segreto, 
ed io avevo la sensazione di avere le ossa scoperte 
e gli occhi grandi come arance mature.
I fanali della mia auto 
proiettavano la loro luce incerta sui cespugli cresciuti ai margini dei cantieri, 
mentre un pipistrello gigantesco apriva il suo mantello imbrattato aspettando immobile il mio passaggio.
La mia mano spinse la leva del cambio accarezzando il pomello consumato, 
la portiera scattò 
e un altro odore si trascinò dentro la mia gola, 
con tutta la sua miseria e le sue menzogne.
I lampioni finirono in una strada sterrata, 
mischiandosi alle stelle come nel vortice di un lavandino, per disperdersi sull'altra faccia del mondo 
mentre il buio si prese la mia testa e le mie mani.

XXVII
Odore di benzina.
Vapore che offusca i parabrezza.
Le signore eleganti si intrecciano in una trama di abbracci sudati, avide di pelle e di peli, eccitate dagli elastici e dai muscoli, 
centrifugate in questi divertimenti frenetici.
Osservo eccitato, ma vedo il mattino avvicinarsi dentro le scarpe dei primi pendolari, un linea sopra un grattacielo di vetro.


XXVIII

Le nostre bandiere sono senza passione,
senza cultura, senza impegno
senza palle.
Una notte, completamente ubriaco, 
guidai per questa città rognosa cieco e sordo,
arrivando a casa come su di una zattera scampata alla tempesta, urlando (così mi dissero) contro qualcosa 
o qualcuno 
mentre trascinavo sul marciapiede il mio povero
contrabbasso.
Ero giovane e senza regole, e tutto filava liscio; 
suonavo dove capitava, mangiavo e bevevo,
guidavo senza meta e davo passaggi a chiunque, uomini e donne, visitando case impregnate d'una misera che non si cancella nemmeno col denaro, case ricucite agli angoli della vita, e di quelli come noi.
Le nostre bandiere sono senza passione, 
senza impegno, senza cultura;
siamo falene instupidite da una luce al neon,
fiaccole sbiadite in ritirata, a prezzi di saldo.


XXIX 

Quand'ero bambino
ero sicuro che dietro la luna ci fosse nascosto qualcosa,
come un grosso insetto
un ragno, uno scorpione o qualcosa del genere.
Poi una notte ci soffiai dentro
e lei, tiepida
si spostò senza fare rumore.
Così vidi una carta da gioco colorata
dove c'era disegnato un granchio che dormiva in uno stagno,
una luna, un bosco e forse una torre.
Presi la carta dal cielo e la misi sotto il cuscino
per entrarci sognando,
ma quando chiusi gli occhi 
mi ritrovai in una stazione dalle luci lattiginose,
alcune spente
altre intermittenti,
tutte coperte di ragnatele.
Vidi una mano rinsecchita e piena di anelli posarsi sulla mia spalla;
mi voltai ma non vidi nulla
soltanto una figura femminile girata di spalle
che camminava verso l'interno dell'edificio.
La seguii e mi ritrovai dove mi trovo adesso,
nel deposito di tutti i nostri sogni,
dove ciò che è successo si è trasformato in un ricordo
e la vita ha mutato direzione,
finendo spiaggiata sulle nostre mani.
Guardo un'ambulanza passare,
un ubriaco che le corre dietro
i miei calzini appoggiati sulle scarpe
e la polvere fin dentro il letto.
Soffio ancora,
voglio far ritornare la luna
ma mi viene solo da tossire.


XXX

Se ci fossimo conosciuti in circostanze diverse...
se la situazione fosse stata un'altra...
se le cose non stessero diversamente...
se qui, se lì
se sù, se giù... appunto...
abbassati ancora un po', 
che ti spillo una pinta di quella buona,
non preoccuparti se non ci sposeremo mai
bagnati le labbra
e brinda alla salute di chi vuoi tu,
che cazzo vuoi che me ne frega.


XXXI


Si buttò un po’ d’acqua tra le gambe e non si asciugò nemmeno.
Così a casa mi lavai abbondantemente e per la prima volta
cominciai a liberarmi degli odori che mi avevano stretto la gola per tutta la nottata.
Guardai un uomo apparire nello specchio,
un uomo bugiardo e pieno di rabbia.
Raccolse un coltello da un cassetto e si girò verso il letto disfatto della sua casa disfatta, della sua vita, dei suoi pensieri e dei suoi incubi stampati sulle pareti, accanto ai ragni addormentati nel freddo.
Passò la sua lama brillante sopra le labbra socchiuse, 
sui denti, sulle spalle, sul petto, 
mentre al di sotto della coperta sudicia 
movimenti sempre più impercettibili 
tradivano ancora qualche grammo di vita,
qualche istante da sottrarre all'eternità e all'oblio.
L'uomo si allontanò dal rettangolo dello specchio 
ma ritornò immediatamente, vicinissimo, 
fissandomi immobile.
Aveva gli occhi raccolti nel buio, invisibili 
come in una melma lattiginosa, fitta di vermi e d'insetti.
Alzò il coltello nella mia direzione e aprì la bocca, 
ma senza produrre alcun suono; 
il riflesso della mia stanza si sovrapponeva alla sua, 
ma sembrava esserne distaccato da una membrana
trasparente,
una barriera che forse ci aveva diviso sin dalla nascita, 
io e il mio riflesso imperfetto.
Mi avvicinai allo specchio, alzai il coltello
e spinsi la mia lingua contro la sua superficie;
fece la stessa cosa anche lui.
I corti movimenti al di sotto della coperta cessarono
e i due uomini si divisero lungo linee speculari
ognuno con la sua arma.
Una lampada posta sul pavimento illuminava le pareti sfarinate, 
proiettando all'infinito ombre aguzze e distorte.
Gli uomini si riunirono in un movimento veloce
lasciando nell'aria una curva luminosa, 
chiusa nel suono sordo della carne.
Un'altra curva cancellò la precedente, 
rendendosi visibile attraverso minuscole gocce lanciate nell'aria, 
perfettamente intonate al gesto, 
seppur divise tra i volti degli uomini e le pareti.
Il buio s'appese all' unica stella ancora visibile
lasciandosi dondolare come un frutto maturo.
Lo specchio si ritrasse nel sonno 
e scosso dal vento e dalla pioggia, 
si ripiegò come un fazzoletto
tenendosi tutte le sue storie e tutti i suoi segreti.


XXXII

Ti guardo attraverso gli occhiali perchè il sole è troppo forte
perchè ci vedo sempre meno bene, anche se l'olfatto è migliorato;
potrei pure dirti di quale marca sono i tuoi slip.
Però so che per te è un segreto
che ci sarà là sotto?...
in quella jungla...
Amazzonia o Foresta Nera, chi lo sa?...
però io so che sei una puttanella, 
le molecole nell'aria mi dicono che ieri sera
ti sei distesa sul sedile di qualcuno che non lava le foderine da moltissimo tempo,
e così ti sei impestata con l’odore delle sue troie straniere
coi suoi travestiti minchiuti
e con tutte le sue menzogne.
La bocca te la sei lavata bene almeno?
Non vorrei dire...
ma insieme alle tue parole 
dalla bocca ti escono tanti piccoli cazzetti svolazzanti.


XXXIII

Soltanto le formiche stanno a guardare il crepuscolo
quando non hanno niente da dirsi.

Disappunti

Marco Riva

 

Disappunti


I

Il mondo a venire sembra un fiocco di neve
che preso e guardato intanto svanisce 
e che in mezzo, 
nasconde una lacrima.


II

Il disco del sole s’è acceso d’una bianca bruma disabitata

un soffio di zucchero
schiacciato tra le dita di un giorno senza i minuti.

Nulla di ciò che vive sul fondo dei nostri letti avrà la giusta pace:

nei sogni siamo come uccelli smarriti,
vinti nel vuoto di una battaglia di semafori
per tutti gli incroci che possiamo contare.

 


III

Non c’è mistero nella tristezza e nemmeno nella gioia;
ogni risposta ci soffoca un po’
riducendo a schiocchi delle dita quel fascino da cameriere.
Ma non abbiamo più niente da dirci,
se non che l’alfabeto è un crocevia non regolato da semafori
e che i colori 
sono gli occhi perduti giocando a dadi ogni sera.
Semi azzurri
come gli occhi di chi ha per primo gettato le mani in fondo ad un tombino,
raccogliendo il proprio cuore.


IV

I miei bicchieri sono abitati
e vivono l’eternità dei cicli trasparenti
nel livore di melodie inudibili,
appese sulle dita dei bevitori.

In queste acrobazie di labbra 
che non possono più né baciare né formare parole.

Il cerchio preciso di un cestello rivela un ritmo perfetto,
tutto si muove in una danza di schiuma 
e gli angeli piangono.


V

Semi azzurri
come gli occhi di chi per primo ha gettato le mani in fondo ad un tombino,
raccogliendoci la propria vita.


VI

Un pneumatico è stato abbandonato in mezzo a un prato
ed è libero di accogliere colonie d’insetti
poiché sulle strade esistono migliaia di lune
ma pochissime chiese, pochissime autentiche parole;

siamo satelliti di un firmamento elettrico,
e il nostro Dio ci chiama a vaghe imprese.


VII

Il sole accende la sua bocca 
e piano piano soffia in segreto il quesito del giorno

e come in un filo di semi intrecciati
accarezza le dita degli uomini.

Nessuno sente 
e nessuno sa che ad ogni sera corrisponde un chicco di questa collana
e che il nome di ognuno vi è impresso come la punta di un ago

intinta nell’inchiostro 
e lavata nel tempo.


VIII

Ogni volta che la pioggia porta via un po’ del nostro cuore.


IX

… mentre il cielo si srotola come una passatoia azzurra
rimbalzando fra gli scalini 

sempre più lontani,
formati dalla sequenza ritmica di un tergicristallo montato a rovescio,
che richiama acqua e s’accende con un grido.


X


Ogni minuto è un rapido segno di gesso;
abbiamo solo segreti di locuste.

 

XI

I giorni cadono a terra col fragore di sbuffi di briciole.
Il becco di un drago morde sulla schiena
saltellando sulla nostra pelle d’animali;

insieme guardiamo la strada masticare il sapore dei carburanti,
il fiato inebriante della nostra civiltà 

nessun mostro fa paura quando parla una lingua incomprensibile,
ci uccidiamo ogni giorno dicendoci “ Buon giorno! “.


XII

La luce è muta
e rotola giù dalle stelle


XIII

L’aurora di una lampadina
all’orizzonte del nostro letto
al punto zero di una catena segnata da eclissi
e dai cuscini:
il suono di un elastico rende l’aria simile alle sottane
svuotate di petali
                         allo scadere di tutte le stagioni.


XIV

Vedo il suo volto di conchiglie,
vaghe reliquie
masticate e digerite tra le spirali del tempo:

devi perdonarmi piccola madre,
qui sotto ci sono soltanto mucchi di letame
e preghiere d’odio e di ignoranza,

anche il cielo è livido di vergogna.


XV

Tutti nascosti,
nella scia di un autobus.

 

XVI

Le mie parole
fissate nel marmo di una curva desolata,
in gloria istantanea.


XVII

Questa litania di binari
che ha ridotto i nostri sensi a cartacce
e spogliato l’inverno del suo dominio di animale.

Nel cortile di un palazzo sbagliato,
fatto interamente d’alberi.


XVIII

Affonderemo le mani in questo piatto di zucchero ,
di quelli che dissetano le ore dei mendicanti 
e che anche i bambini possono rubare.
Il cielo si stringe nelle tasche, lasciando un vuoto di spilli.

 

XIX

L’urlo di un freno ad un incrocio
bacia sulla fronte sciupata i prossimi bianchi trapezi.
Volti incollati la mattina e imbrattati la sera,
aspettando che la luna spalanchi la bocca
ingoiando fino all’ultima stella,
così che i nostri marciapiedi
possano morire sognando di boulevard cantati in rima
e di trecce formate da sequenze esatte di rettangoli illuminati.
In gloria di una sinfonia suonata all’ora di punta,
per migliaia di canne d’organo e di motori all’unisono,
noi
su questo trono di aiuole


XX

Sul grattacielo più alto del mondo
l’aurora obbedisce alla sua sveglia anticipata, 
mentre un inserviente dall’aria impaziente
raccoglie tra le antenne le vesti d’angeli maldestri.
Malgrado l’astuzia e l’arroganza vivremo sempre nei nostri escrementi,
felici di piangere la nostra giovinezza.


XXI

Lo scheletro di un nuovo parcheggio s’è aggrappato al cielo
stringendo fra i bulloni tutti i miei rifugi 
e il mio stesso respiro,
lungo tutta la tastiera dei monti.

Il sole ha fermato la sua corsa,
s’è raccolto nella veste abbagliante
e ha cambiato tragitto, cercando salvezza in una roggia tra i campi,
dove nessuno avrebbe nemmeno il coraggio di orinare.
Dove legioni d’insetti atterriscono con racconti orribili ogni nostra velleità,
sfidando la prima neve semplicemente morendo.


XXII

Attraverso i racconti monotoni di milioni di pneumatici
la terra si cela ancora,
respirando con la forza di un neonato.

Questo riflesso
che s’è trasfigurato nel passato
appostandosi come una pantera tra le stelle.


XIII

La morte galleggia feroce sulla schiuma brulicante, 
a valle delle nostre parole.
Le finestre si lanciano verso il cielo
come trecce irrigidite

mentre una catena di soli effetti
si riproduce istantaneamente,
fissandosi sui nostri polsi.


XXIV

Ci si fregia di questo fiore avvelenato
e della sua bruttezza,
coltivando il futuro in una vasca disabitata
cantando, nella nostra allegria di pazzi.


XXV

I misteriosi canali che uniscono le nostre menti 
a quelli aperti sulla pianura, fino a un delta immaginario
bagnato d’oro e di seta.

E’ certo,
nel giorno della mia morte
si scaverà tra l’asfalto insidioso
per liberare la memoria di volpi e di faine;

il sole brillerà due volte
e nel mio nome ogni invertebrato produrrà una lacrima.


XXVI

Gli amanti condividono con me un’alcova silenziosa,
tra gli angoli che gli occhi non raggiungono.

L’erbaccia dura e sottile 
che ha imprigionato eserciti formati da migliaia di giovani fulmini
mentre le braccia si stringono al buio,
tirando giù anche i pianeti.


XXVII

Sei già vecchio,
mentre il caldo di agosto comincia a rassegnarsi alle brume autunnali.

Torni in cima alla fontana
in equilibrio 
come sul tuo naso bagnato.


XXVIII

Rendiamo vani tutti questi propositi
perché nei nostri calici
abbiamo trovato soltanto gocce di pioggia
e frammenti di foglie di chissà quanti inverni.

Come facciamo a brindare a queste meraviglie
se il giorno si sta assottigliando come una lama?

Ma le nostre labbra vedono,
e senza parlare graffiano nell’aria curve furiose

E si nascondono come lucertole,
per rendersi invincibili

 

XXIX

…inebriati di nuove molecole e di nuove idee.

 

XXX

La sera gioca soltanto poveri numeri
e s’accompagna a queste processioni di lampioni,
facendo cantare fili d’erba e fogli di giornale
come ruote raccolte sui binari.

Vesti antiche
dimenticate tra le nuvole
a ricamare motivi di vento e di grano.

 

XXXI

Presto le piccole margherite del cortile si chiuderanno
soffiando sogni per tutti gli abitanti di questa inutile porzione di mondo.


XXXII

Quando all’alba i colori si stringono
mostrando tutti i nostri delitti.

Questa vena inestinguibile e pagana
farà del cuore il rifugio d’ogni ferraglia
mentre il giorno veglierà sopra le teste piegate e sugli affanni.
Masticherà tabacco,
nel brusio di marmi e rugiada.


XXXIII

Note portate con la giusta attenzione
prendono strani colori 
e rimbalzano come raggi d’ombrelli,
lasciati appesi in questa grande carrozza caduta tra le nuvole.


XXXIV

La luce che le foglie non trattengono
si deposita in macchie di cenere
simile ad una vela furiosa,
dimenticata all’angolo di una tempesta.

La pioggia scandisce il suo ritmo sopra i vetri, 
raffreddando il mio tè.


XXXV

Rosa e rosso. 
Il fiato schiacciato in fondo alla gola.
Non dobbiamo lamentarci dei secoli passati su queste sponde

le nostre scarpe sono molto più antiche
sagge quanto l’oracolo stampato sulla carta di una caramella appiccicosa
accolta sui lidi del palato,
e subito dimenticata.


XXXVI


Il tempo salta un paio di passi
ma si riprende accorciando le vite di tutti

l’estate piega la testa all’ingiù
tirando le tende sempre un po’ in anticipo
mentre il sole è ancora sveglio.


XXXVII

Giù per i nostri sogni di animali
per infinite onde ripiegate tra le mani,

odorose di troppe attenzioni
e di carte ormai essiccate.


XXXVIII

Quando la vita avrà mollato la presa
e mi avrà incorniciato in memorie di morti

guarderò dall’alto dei tetti le mie sfocate dimore terrestri
e canterò con voce di fantasma
cercando l’attenzione di principesse straccione

farò il garzone dei sogni
e prenderò con me legioni di chiocciole
sfilando ad una ad una le ore che dividono sole e luna 
soltanto per dormirci dentro.


XXXIX

Piene di vita o di morte non fa nessuna differenza
nel prato di fronte casa
abitano streghe minuscole
con le loro voci di fragola
e la menta pungente dei loro sortilegi.

Non ho nessuna ambizione se il cielo si chiude tra le nuvole
ma vorrei volare quando vedo le mie finestre spaccate d’azzurro.

Prendo un biglietto sul confine del tempo
al di qua di bolle color crema
fissate in non so quale accordo.

E faccio piano per non svegliare la mia compagna,
ancora raccolta nelle ali.


XL

La piega di questi anni 
corre lungo tutte le mie camice,

ha l’arroganza dei riccioli ribelli

fieri sulla testa dei bambini
quando nemmeno le forbici ne avranno più ragione.

E’ il fondo lucido dei cassetti mai occupati
l’aspetto del vuoto in un cimento domestico e ostile,

il mio miglior voto.


XLI

Sopra il tappo delle mie bottiglie
il resto scontato di tutte le mie notti insonni

delle ferite inferte dai topi che popolano il guanciale

dei monti che fischiano come tordi

dei miei dadi all'unisono;

l'acqua sgorga in segreto attraverso il mio cuore
e beve da magre ampolle
(un tonfo d'ovatta).


XLII

Lunghe file d’ automobili
ricucite come bottoni tra le periferie della mia pelle ordinata
stanca d’inverni e di rumori.

Al di qua di mani gettate tra i campi
il buio si veste di brina 
e improvvisa corse tra i lampioni;

ogni cerchio sfocato è una stella mischiata nella polvere
addormentata nella piega di un dito che dovrebbe indicarla
al sicuro di stoffe brulicanti di briciole
dove anche la luna
di giorno
riposa.


XLIII

Dadi dalle facce sonore
rimbalzati come perle sul selciato,
all’origine di questo nuovo equilibrio
maturato in una foresta di sogni 
e di occhi manovrati a leva.


XLIV

L’inverno dimora nel bianco di un cerchio

è un falco precipitato sulle nostre labbra.

Il vuoto s’allunga sulle braccia e soffia gelo tra le fessure

vive in equilibrio 
tra gli incerti scatti,

l’abitudine:

che nella sua corsa rende incomprensibili spazi e misure
restituendo in zucchero melodie ingigantite dal fondo dei bicchieri.

E’ il ritmo dei pascoli svuotati 
resi alle sabbie di generi sconosciuti.


XLV

Come i miei ultimi pensieri
spalmati sulla carta di un altipiano
fra grilli e lampioni accordati in fa.

Le chiavi sonanti di serrature ben temperate
ripassate d’argilla.


XLVI

Io non so di queste segrete ragioni
ma so che hai gli occhi vasti di un ghiaccio che riscalda 
e la bocca più piccola di una goccia di miele,
dove tutti i tuoi baci vivono e dormono; 

la tua voce mi ha raccolto,
senza sapere
e senza chiedere.


XLVII

La nebbia è sempre abitata.

Parole inservibili

Marco Riva

Parole inservibili

 

 

 

 

I

Il venditore di detersivi passò le dita sulle immagini colorate di un catalogo
formando involontariamente minute catene d’aria, 
intrecciate
e sfinite.
Intonate alla pieghe d’uno strascico invernale freddo e indolente 
il punto su quale geometrie non rivelate alimentano i sogni:
la visione delle cose svanisce al contatto con gli occhi
polverizzandosi in un gioco di lenti ,
in un passaggio senza cardini ma dotato d’ infinite serrature,
le une collegate alle altre in serie meccanica.
Denti destinati a ruote, matrimoni falsificati 
in favore di chiavi dure e violente, 
sferraglianti nel loro tragitto di sola andata.
E grassi come semi di albicocca
giù per i nostri pensieri 
nel cavo delle mani;
ultima offerta, il ventre s’è spaccato tra le dita 
e retrocede di grado 
mostrando la schiena appesantita dagli anni.


II

Ora che la vita è simile nei dettagli anche alla morte
è possibile affondare le mani in questo piatto di zucchero ,
di quelli che dissetano le ore dei mendicanti 
e che anche i bambini possono rubare.
A chi ci ha regalato qualcosa 
avremmo potuto restituire le mani con cui accettammo il dono
ma senza vera gratitudine 
e con un po’ di rabbia, fredda e inconcludente.
Il cielo si stringe nelle tasche, lasciando un vuoto di spilli.


III

Osservo i loro volti modesti, 
e rido
prendendo per mano le loro mani.
Le mie parole dal suono sgradevole
fissate nel marmo di una curva desolata,
in gloria istantanea,

un giorno che l’aria si mischierà con l’acqua
nasconderò dai loro occhi l’immagine della vita,
per ridurla ad una farfalla da collezione, 
nei suo colori trasognati e nudi.


IV

In quale modo il vento trasporta e intreccia i destini 
non è mai stato un mistero.
Non c’è mistero nella tristezza 
e nemmeno nella gioia;
ogni risposta soffoca un po’ del suo corpo
riducendo a schiocchi delle dita quel fascino da cameriere.
Ma non abbiamo niente da dirci,
se non che l’alfabeto è un crocevia non regolato da semafori
e che i colori 
sono gli occhi perduti 
giocando a dadi ogni sera.


V

Anche i miei bicchieri sono abitati dal silenzio
vivono l’eternità di cicli trasparenti
nel livore di melodie inudibili,
appese sulle dita dei bevitori.

In queste acrobazie di labbra 
che non possono più né baciare né dare forma a parole.

Il cerchio preciso di un cestello rivela un ritmo perfetto,
tutto si muove in una danza di schiuma 
e gli angeli piangono.


VI

Un peschereccio naviga dal suo piedestallo
sulla tovaglia striata d’azzurro,
sfiorando coste colorate e iceberg di cartone.
Un animale dipinto di rosso scivola dalla parete incurvata di una tazza
e chiede al peschereccio
“ potresti portarmi con te?… “
il peschereccio risponde
“ … e che me ne faccio di un leone a bordo?… mica sono Noè!…”
così l’ immagine dipinta cambia natura e diventa un’onda bianca di latte
che porta la barchetta dalle parti delle nuvole.
“ A cosa serve una barca nel cielo? “ chiede l’onda di latte
“ e a che serve diventare saggi? “ risponde il peschereccio.


VII

Il sole accende la sua bocca piano piano,
soffiando in segreto il quesito del giorno

come un filo di semi intrecciati:
accarezza le dita degli uomini 
e i loro occhi.

Nessuno sente 
e nessuno sa,
che ad ogni sera corrisponde un chicco di questa collana
e che il nome di ognuno vi è impresso come la punta di un ago

intinta nell’inchiostro 
e lavata nel tempo.


VIII

Era di un frutto maturo,
o di rami cresciuti senza disciplina
e contorti in una scritta di spine.
Il verde invece è acerbo
e in questo tenero vestito 
gli alberi giocano a chiamarsi come mogli e fratelli.
Nascosti nella testa di un principe 
e sistemati sulla faccia di una sfera,
come i giorni che hanno avvolto il mio corpo.


IX

Come credi …
Io scrivo 
e guardo le strade riempirsi di sole,
Mentre il cielo si srotola come una passatoia azzurra
rimbalzando fra scalini sempre più lontani,
al di sotto degli occhi.

Nello spazio delle palpebre
dove si cambia di passo
e l’aria diventa una coltre spessa,
imprigionata tra i segni ruvidi delle mani
dove ogni vita s’imprime di dolore e di fatica, 
disegnando curve approssimate.
Il mio ricordo è un disegno evanescente
Formato dalla sequenza ritmica di un tergicristallo montato a rovescio,
che richiama acqua e s’accende col sole.


X

La sirena di una fabbrica dichiara il suo punto di vista
spremendo fragole dentro la ciminiera,
così dolce che gli operai credono di non dover lavorare più
e di poter correre lungo il perimetro delle loro vite,
liberi dall’incombenza del tempo.

Ogni minuto è un rapido segno di gesso all’interno del cuore
di quelle musiche incolpevoli, nella loro bruttezza 
e nel loro segreto di locuste.

Un pneumatico è stato abbandonato in mezzo a un prato
ed è libero di accogliere colonie d’insetti
poiché sulle strade esistono migliaia di lune
ma pochissime chiese, pochissime autentiche parole;

Siamo satelliti di un firmamento elettrico,
e il nostro Dio ci chiama a vaghe imprese.


XI

I giorni cadono a terra col fragore di sbuffi di briciole.
Il becco di un drago morde sulla schiena
saltellando sulla nostra pelle d’animali;

insieme guardiamo la strada masticare il sapore dei carburanti,
il fiato inebriante della nostra civiltà 

nessun mostro fa paura quando parla una lingua incomprensibile,
ci uccidiamo ogni giorno dicendoci “ Buon giorno! “.


XII

La luce è muta
e rotola giù dalle stelle

lascia la presa di un pugno teso nel mattino,
graffiato di rosso e di vento.

E’ il volto di una maschera appesa all’ultimo dei gradini.

Passare dalla porta di servizio
per rendere più accettabile il nostro vaticinio,
e strillare il vuoto delle mani

 

XIII

I giorni di una falena 
sono la terra fredda che protegge le nostre dita nella luce,
l’aurora di una lampadina
all’orizzonte del nostro letto
al punto zero di una catena segnata da eclissi
e da cuscini sfondati:
il suono di un elastico rende l’aria simile alle sottane
svuotate di petali
                         allo scadere di tutte le stagioni.


XIV

Vedo il suo volto di conchiglie,
la mano sopra i capezzoli montati in oro

e tutte queste erezioni di santi,
insoddisfatte , 
                        vaghe reliquie
                        masticate e digerite tra le spirali del tempo:

devi perdonarmi piccola madre,
qui sotto ci sono soltanto mucchi di letame
e preghiere d’odio e di ignoranza;

anche il cielo è livido di vergogna.


XV

Sembravamo tutti morti
ma il mattino ha spalancato gli occhi delle sue campane a giorno,
restituendoci memorie di vita

alberi invisibili 
nascosti nella scia di un autobus.

Le loro stagioni, ridotte da capolinea a capolinea
s’accendono e si spengono di luci fasulle
e di biglietti aggrappati ai portafogli.

Ma le strade hanno tutte percorsi segreti
e passaggi immaginati
quando il mondo stava racchiuso in un guscio di mandorle
e il tempo scorreva da futuro a passato,
senza parole di morte, né immaginazione. 


XVI

Il disco del sole
s’è acceso d’una bianca bruma disabitata

un soffio di zucchero
schiacciato tra le dita di un giorno senza i minuti.

Nulla di ciò che vive sul fondo dei nostri letti
avrà la giusta pace:

nei sogni siamo come uccelli smarriti,
vinti nel vuoto di una battaglia di semafori
per tutti gli incroci che possiamo contare,

e per chi mai dovrà pagare pegno.


XVII

Questa litania di binari
ha ridotto i nostri sensi a teste essiccate
e spogliato l’inverno del suo dominio di animale.

Nel cortile di un palazzo sbagliato,
fatto interamente d’alberi.


XVIII

La sera gioca soltanto poveri numeri
e s’accompagna a queste processioni di lampioni,
facendo cantare fili d’erba e fogli di giornale
come ruote raccolte sui binari.

Vesti antiche
dimenticate tra le nuvole
a ricamare motivi di vento e di grano
intrecciando pioggia a pioggia,

semi azzurri
come gli occhi di chi ha per primo gettato le mani in fondo ad un tombino,
raccogliendo il proprio cuore.


XIX

La voce di un mendicante dalla pelle bruna
si è infilata giù per le mie tasche,
lasciando aromi di spezie
e frammenti di croste annerite.
L’urlo di un freno ad un incrocio
bacia sulla fronte sciupata i prossimi bianchi trapezi:
volti incollati la mattina e imbrattati la sera,
aspettando che la luna spalanchi la bocca
ingoiando fino all’ultima stella,
così che i nostri marciapiedi
possano morire sognando di boulevard cantati in rima
e di trecce formate da sequenze esatte di rettangoli illuminati
corde color crema
ordinate a coppie e finite nella gola di un uomo senza memorie
seduto su di un trono di aiuole
in gloria di una sinfonia suonata all’ora di punta,
per migliaia di canne d’organo e di motori all’unisono.

 

XX

Sul grattacielo più alto del mondo
L’aurora obbedisce alla sua sveglia anticipata, 
mentre un inserviente dall’aria impaziente
raccoglie tra le antenne le vesti d’angeli maldestri
Ingannati dalle troppe stelle e dal vizio del volo.
Malgrado l’astuzia e l’arroganza vivremo sempre nei nostri escrementi,
felici di piangere la nostra giovinezza
e certi di morire.


XXI

Lo scheletro di un nuovo parcheggio s’è aggrappato al cielo
stringendo tra i bulloni tutti i miei rifugi 
e il mio stesso respiro,
trasognato
lungo tutta la tastiera dei monti.

Il sole ha fermato la sua corsa,
s’è raccolto nella veste abbagliante
e ha cambiato tragitto, cercando salvezza in una roggia tra i campi,
dove nessuno avrebbe nemmeno il coraggio di orinare.
Dove legioni d’insetti atterriscono con racconti orribili ogni nostra velleità,
sfidando la prima neve
semplicemente morendo


XXII

Facendo molta attenzione,
Attraverso i racconti monotoni di milioni di pneumatici
La terra si cela ancora,
Respirando con la forza di un neonato.

Non esistono pause
In questa nuova forma a cui il silenzio è stato chiamato
Questo riflesso
Che s’è trasfigurato nel passato
Appostandosi come una pantera tra le stelle,
Prossima a pensieri non immaginati.


XIII

La morte galleggia feroce 
sulla schiuma brulicante 
a valle delle nostre parole.
Le finestre si lanciano verso il cielo
Come trecce irrigidite
Fredde, e stupefatte

Mentre una catena di soli effetti
Si riproduce istantaneamente,
Fissando sui nostri polsi le chiavi di questi spenti momenti,

gli uccelli migratori 
Respirano il tempo di nuove stagioni,
Guardandoci nel frullare delle ali.


XXIV

Bevo da una lattina impolverata, imprecando
Ma la gente per la maggior parte è stupida

E si fregia di questo fiore avvelenato
E della sua bruttezza,
Coltivando il futuro in una vasca disabitata
Povera anche di silenzio.

Mi piacerebbe azzerare con un gesto questa vaga processione,
Piena di rumori e di rabbia;

Ma per mettermi a capofila, con le braccia aperte
Come la locomotiva di un convoglio suicida, 
Al ritmo di un capodanno lanciato nel vuoto,
Cantando, nella nostra allegria di pazzi.


XXV

Vivo al di sotto di tutte le soglie stabilite dai metri umani,
I misteriosi canali che uniscono le nostre buie menti ai canali aperti sulla pianura
Fino a un delta immaginario
Bagnato d’oro e di seta.

E’ certo,
Il giorno della mia morte
Si scaverà nell’asfalto insidioso
Per liberare la memoria di volpi e di faine;

Il sole brillerà due volte
E nel mio nome ogni invertebrato produrrà una lacrima,
Senza che nessuno potrà accorgersi di nulla.


XXVI

Gli amanti condividono con me un’alcova silenziosa,
Ricavata negli angoli che gli occhi non raggiungono
O dove non possono gettare luce.

Un falco si tuffa all’orizzonte
Credendo il sole una grossa gazza da consumare prima dell’alba,
L’erbaccia dura e sottile 
che ha imprigionato eserciti formati da migliaia di giovani fulmini

Mentre le braccia si stringono al buio
Tirando giù anche i pianeti,
Compressi nel guscio di una lumaca assetata.


XXVII

Quando le stagioni cominciano a tirarsi l’un l’altra 
e vedi i colori mutare in anticipo
Allora sei già vecchio;

Natale profuma di primavera
E il caldo di agosto comincia a rassegnarsi alle brume autunnali.

Vedere gli anni rincorrersi è il nostro talento migliore,
Ma è privo di scopo,
Senza la giusta ricompensa che i nostri sensi pretenderebbero.

Il bianco della pagina è irresistibile durante l’adolescenza,
Ma nel tempo diventa un sordo e cupo silenzio
Per poi spalancarsi come un guscio nel becco di un corvo,
Così privo di maniera.

Ma il sonno ricompone tutti i suoi pezzi
Così che mogli e figli,
Menzogne e piccole furbizie
Ritornano come non ancora consumate,
Avvolte nella carta più lucida che la nostra mente possa confezionare.

La vita ridiventa accettabile
E torna in cima alla fontana
In equilibrio sopra il suo getto
Sul naso bagnato:
Queste acrobazie d’ultima serie …..


XXVIII

Rendiamo vani tutti questi propositi
Perché nei nostri calici
Abbiamo trovato soltanto gocce di pioggia
E frammenti di foglie di chissà quanti inverni.

Come facciamo a brindare a queste meraviglie
Se il giorno si sta assottigliando come il bordo d’un guscio?

Ma le nostre labbra vedono,
Senza parlare
E stampano nell’aria curve furiose

E nascondono parole scritte con foglie di lucertole,
Per rendersi invincibili

Mentre allo specchio, guardiamo sempre i nostri soliti film.


XXIX

Ogni giorno lancio coriandoli dalle mie finestre,

poi spalanco gli occhi 
e cerco di guardarci dentro.

E’ un gioco che mi hanno insegnato
Quando al posto di ciò che scrivo
Altri scrivevano per me;

eravamo tutti felici,
Inebriati di nuove molecole e di nuove idee;

Il mondo a venire sembra un fiocco di neve
Che preso e guardato 
intanto svanisce 
Come un punto lucido
e che in mezzo, 
nasconde una lacrima.


XXX

Ogni nuova insegna corrisponde ad una lettera
Il cui valore va indovinato durante il ciclo intero delle stagioni;

Così che si potranno formare parole nuove dai significati inauditi
E dalle pause nascoste fra coltelli,
 
E mine dalla forma di fiore
Odorose di rispettabili catene
Lunghe e morbide come seni.

Non liberateci, non parlateci dei vecchi boschi
Ora che abbiamo intere foreste da leggere,
Coi loro tremolanti colori a pantone
Così docili,
E vivi


XXXI

Cos’è successo di brutto oggi?
Cosa c’è di cattivo da mangiare?
Perché sono così ostinatamente felice?

Vedo il tramonto adagiarsi sulle colline di fronte casa
Come una risacca di sole conchiglie
E di sabbia setacciata all’infinito.

Presto le piccole margherite del cortile si chiuderanno
soffiando sogni per tutti gli abitanti di questa inutile porzione di mondo,

Anche per chi avrà ricordato o dimenticato tutto,
                                                                              facendo un tuffo in un mare a rovescio

Dove galeoni dalle vele ferite di sale 
Ancora trattengono i canti di marinai morti da secoli,
E mai invitati alla mensa del cielo.


XXXII

Di tutte le meraviglie di questo mondo
Vorrei portare con me il sapore selvatico di una ciliegia,
Quando all’alba i colori si stringono in un cerchio 
Mostrando tutti i nostri delitti.

Questa vena inestinguibile e pagana
Farà del cuore il rifugio d’ogni ferraglia
Mentre il giorno veglierà sopra le teste piegate sugli affanni
E masticherà tabacco,
Nel brusio di marmi e rugiada.


XXXIII

Non importa quando o come,
Note portate con la giusta attenzione
Prendono strani colori 
E rimbalzano come raggi d’ombrelli,
Lasciati appesi in questa grande carrozza caduta tra le nuvole.

Un suono è sempre perfetto


XXXIV

La luce che le foglie non trattengono
Si deposita in macchie di cenere
Sbuffando contro il vento,
Simile ad una vela furiosa
Dimenticata all’angolo di una tempesta.

La pioggia scandisce il suo ritmo sopra i vetri, 
raffreddando il mio tè.


XXXV

Rosa e rosso 
Il fiato schiacciato in fondo alla gola
Per dare voce a un bacio.

Non dobbiamo lamentarci dei secoli passati su queste sponde

Le nostre scarpe sono molto più antiche
Sagge quanto l’oracolo stampato sulla carta di una caramella appiccicosa
Accolta sui lidi del palato
E subito dimenticata.


XXXVI

L’altalena pigola senza posa,
Un uomo legge seduto

Tenendo le gambe in una posa curiosa

Il tempo salta un paio di passi
Ma si riprende accorciando le vite di tutti

L’estate piega la testa all’ingiù
Tirando le tende sempre un po’ in anticipo
Col sole ancora sveglio.


XXXVII

Chissà per quali astratte coincidenze
Abbiamo dovuto incontrarci

Ci siamo consumati di sguardi 
E confortati nel silenzio

Com’è amaro questo nuovo pascolo
Una ruota che gira senza cardini
Lasciando penetrare luci fitte di mani,

Giù per i nostri sogni di animali
Per infinite onde ripiegate nel cassetto,

Odorose di troppe attenzioni
E di carte ormai essiccate.


XXXVIII

Quando la vita avrà mollato la presa
E mi avrà incorniciato in memorie di morti

Guarderò dall’alto dei tetti le mie sfocate dimore terrestri
E canterò con voce di fantasma
Cercando l’attenzione di principesse straccione

Farò il garzone portasogni
Se il Demonio lo vorrà
E prenderò con me legioni di chiocciole
Sfilando ad una ad una le ore che dividono sole e luna 
Solo per dormirci dentro.


XXXIX

Piene di vita o di morte non fa nessuna differenza
Nel prato di fronte casa
Abitano streghe minuscole
Con le loro voci di fragola
E la menta pungente dei loro sortilegi.

Non ho nessuna ambizione se il cielo si chiude tra le nuvole
Ma vorrei volare quando vedo le mie finestre spaccate d’azzurro.

Prendo un biglietto sul confine del tempo
Al di qua di bolle color crema
Fissate in non so quale accordo.

E faccio piano piano per non svegliare la mia compagna,
Ancora raccolta nelle ali.


XL

La piega di questi anni 
corre lungo tutte le mie camice,

ha l’arroganza dei riccioli ribelli

Fieri sulla testa dei bambini
Quando nemmeno le forbici ne avranno più ragione.

E’ il fondo lucido dei cassetti mai occupati
L’aspetto del vuoto in un cimento domestico e ostile,

Il mio miglior voto.


XLI

Il suo volto s’è stretto alle mani,
verde di un pascolo perduto in una gemma dalle infinite trappole:  
un idolo d'ardesia.

Sopra il tappo della mia bottiglia
il resto scontato di tutte le mie notti insonni

delle ferite inferte dai topi che popolano il guanciale

dei monti che fischiano come tordi

dei miei dadi all'unisono;

l'acqua sgorga in segreto attraverso il mio cuore
e beve da magre ampolle
(un tonfo d'ovatta).


XLII

Lunghe file d’ automobili
ricucite come bottoni tra le periferie della mia pelle ordinata
stanca d’inverni e di rumori.

Al di qua di mani gettate tra i campi
il buio si veste di brina 
e improvvisa corse tra i lampioni;

ogni cerchio sfocato è una stella mischiata nella polvere
addormentata nella piega di un dito che dovrebbe indicarla
al sicuro di stoffe brulicanti di briciole
dove anche la luna
di giorno
riposa.


XLIII

Su di un trapezio bianco di catene e d’ossa
la testa ovale di un bambino graffia il cielo
disegnando curve indurite nella polvere,

dadi dalle facce sonore
rimbalzati come perle sul selciato ma privi di valore,
all’origine di questo nuovo equilibrio
maturato in una foresta di sogni 
e di occhi manovrati a leva.


XLIV

L’inverno dimora nel bianco di un cerchio

è un falco precipitato sulle nostre labbra,
inseguendo ombre di prede vedute in sogno

immaginate ai vertici di tutte le stagioni.

Il vuoto s’allunga sulle braccia e soffia gelo tra le fessure

Vive in equilibrio 
tra gli incerti scatti,

l’abitudine di gesti distratti dalla fretta:

nella sua corsa rende incomprensibili spazi e misure
restituendo in zucchero melodie ingigantite dal fondo dei bicchieri.

E’ il ritmo dei pascoli svuotati 
resi alle sabbie di generi sconosciuti,
mai più grandi di semi di riso.


XLV

Il mondo è pieno di cose appena importanti
Ruote ad inchiostro
Come i miei ultimi pensieri
Spalmati sulla carta di un altipiano
Fra grilli e lampioni accordati in fa

Le chiavi sonanti di serrature ben temperate
Ripassate d’argilla
Ogni volta che la pioggia lava via un po’ del nostro cuore


XLVI

Una stella bizantina
Illumina di luce riflessa il coro silenzioso dei supplicanti

Moderni santi degli orologi rischiarano di grazia queste preghiere crudeli
E chiudono sul volto dei cherubini la botola di nuove penitenze off shore;

La nebbia è sempre abitata.

 

 

...per te...

Io non so per quale segreta ragione le nostre dita si sono incontrate sugli stessi tasti, 
era il tempo a ritroso d' una melodia indaffarata in tutt'altre faccende, 
distratta dai semi gettati come ancore in mare; 
quello era il suono di uno scalpitio di passi,  
di una canzone senza parole e senza un vero approdo, 
che non fosse vago o straniero.
Non ricordo e non ho che frammenti di un guscio aperto come un fiore 
dipinto al ritmo di onde incomplete, 
perché distese tra i passi di una nuova parola, 
bianca 
e fresca di nuvole che portano la luce del sole, coi suoi gesti di sovrano;
ma la penombra stava già sostenendo le tue parole 
come il vento mantiene l'aroma di un frutto nell'aria:
io non so di queste segrete ragioni
ma so che hai gli occhi vasti di un ghiaccio che riscalda 
e la bocca più piccola di una goccia di miele,
dove tutti i tuoi baci vivono e dormono nelle stesse mani che hanno portato le nostre all'unisono,
senza che il buio avesse ragione delle sue prede per una volta, 
e senza aspettare che le note ci dicessero perché:

ma queste sono solo risposte a segreti che non esistono

e invece la tua voce mi ha raccolto,
senza sapere
e senza chiedere.

Taccuino milanese

Marco Riva


Taccuino milanese

 

 

I

Crediamo d’essere vivi
e parliamo,
soffocandoci di parole e di gusci d’arachidi.

Assaggi promessi alla pattumiera vengono accarezzati dalle dita d’impiegati a fine mandato
mentre di fronte ai tavolini, tutti incrostati, 
inutili orpelli post moderni abbruttiscono il nostro patchwork urbano, 
dandogli l’aspetto d’un banco da rigattiere disonesto, dove l’ antico è solo vecchio 
e il vintage è lo scarto di matrimoni falliti 
o di lutti inaspettati.

Il fondo dei cassetti ha l’odore delle mie tasche
e la bocca fissata in un sorriso di squalo, bianca più delle mani. 

Ma è tardi e in piazza i piccioni volano lentamente per indicarci una via di fuga,
ridendo del nostro odio
e delle nostre idee impossibili.
La promiscuità è la radice di tutti i nostri problemi:
ma siamo felici delle nostre spiagge,
fitte di automobili e di piedi

nemmeno consapevoli dei ritardi a cui il cuore è costretto,
pieno d’impegni com’è.


La vista s’è disgregata in mille fili di perle e di molecole, 
aloni spacciati per riflessi di brume impressioniste, un po’ più rigide.
Però la madonnina canta ancora,
anche se ha chiesto il trasferimento.

Lascio che una briciola rimbalzi contro le mie scarpe
e conto i passi da marciapiede a marciapiede,
come in una processione di fantasmi
solenne da fare arrossire
e inutile 
quanto la sirena che dai tombini segna l’inizio del giorno
e che col buio
porta con sé i pensieri dei passanti,
trasformandoli in desideri
o in incubi.

Meglio di noi faranno queste giovani nuvole
trasportate dalla fame e dalla rabbia,
quando ancora nel cielo vivevano draghi dalle teste pulsanti di luce,

stavano distesi per i quattro venti
raccontando le origini del mondo con suoni di girandole, 
facendo dell’aria un canestro ricolmo d’offerte e di fiori.

Ma è sempre al tempo che vanno chiesti sconti;

La luce dei lampioni è una striscia monotona,
annichilisce la notte 
soffiando polvere d’asfalto e di farfalle sopra le palpebre ridotte ad esche vibranti
 
è un’onda incisa a sangue sulle teste dei più deboli,
mentre le madri erano al lavoro:

così ho lasciato nel sonno le mie origini di mendicante.

Mille buie camere 
ognuna rischiarata da una luna di zucchero

Mille finestre dalle mani ghiacciate
E frutti di melograno.

In nome di una nuova città
da costruire sul volto di un santo disteso tra gli orizzonti,
il respiro di una stagione 

e il cerchio della luce 
alleggerita dai raggi di una pioggia bianca d’estate 

dove rogge incise tra i campi ripiegano in busta ogni nostra fatica
per fingersi viaggiatrici dei lidi improbabili 
o di strade nascoste tra i rifiuti,
mentre gli alberi dormono senza riposare.

Sulle banchine delle stazioni è vietato sognare
anche se il mattino sta per distendere tra le braccia il suo ventaglio di pergamena
sul quale la città è disegnata con segni di carbone 
e macchie di calce ancora calda


indossa il suo mantello di rugiada come un fiore la corolla,
e fili d’una trama segreta tra le dita

un fischio ci risveglia mentre gli orologi gridano di gioia. 

 

 

 

 

II

Un bianco incerto, 
fitto di occhi
tra i quali tutte le nostre parole finiscono

simile ad una ragnatela vibrata, la giostra di guglie trattiene il sole
mentre la gola delle montagne s’allunga come un corpo caduto su di un cuscino troppo grande.

La tua offerta è un canestro ricolmo di mani ancora vive
strette attorno a ciuffi d’erba e di fango
il sacrificio dei campi e degli inverni,
dove da sotto la neve il grano riposava nei suoi sogni
rendendo accettabile anche la fame.

Ma le nostre idee non s’accordano a queste reti 
e il giorno dell’adunanza arriverà senza avvisare e non aspetterà nessuno,

tuffiamoci nei nostri aperitivi 
se ancora è possibile,
il nostro appeal sta per ridursi a una lozione per capelli.

È tempo di richiamare il nostro angelo a mansioni più terrene 
e di giocarci tutto sulla ruota del paese dei balocchi,
tanto asini siamo e asini resteremo.

Quando penso alla mia odiata periferia
il profumo della polvere mischiata ai rottami della ferriera 
riprende il suo posto tra le tessere della memoria 

spalanca il suo mantello grigio 
da cui voragini incandescenti rotolano giù come gomitoli
disegnando scie visibili a distanza, fino all’imbocco del mare

è ancora pomeriggio
ma la luce s’è già smorzata in livide candele 

Trecce d’incenso mischiate ai colori di vetrate sparigliate, 
appoggiate sull’arco del mattino come fiori selvatici.

Giri di noci appese al cielo 
e cattedrali addormentate.

durante la vendemmia niente dura più d’una foglia di menta,
il coraggio dei grilli si misura in autunno 
quando le gracili volute del cielo s’accendono di fuoco
riversando tra i prati piogge straboccanti d’ambra.

Alle piazze 
confuse col segno di un pennello essiccato
sponde sulle quali tempeste di frecce illuminate punteggiano il lato oscuro della tela

ubriache di moderne e inconcludenti soluzioni per ogni tipo di crisi.

Finisco nel piatto anch’io
assieme all’insalata lavata con poca cura,
mentre le mani passano dal cellulare alla ramazza appoggiata all’ingresso del bagno
fingendosi esperte e sicure:
no…

io non voglio 
non vedo l’utilità di correre incontro a un tram se poi non sarò dispensato dalle mie fatiche
accolto in paradiso e stipendiato da santo

voglio bere da una cannuccia incisa in oro
e sputare nel letto dove dormo
diventare apprendista stregone e fare sparire tutte le stelle che inquinano i miei pensieri.

È necessario abbruttire le città
perché anche le farfalle sono vermi famelici
e truccate d’estate non potranno mai essere veramente cool e farmi fare bella figura 
mai.


III

Non rispondo a chi mi chiede l’età,
nascondo questi lupini straordinari nel buio delle mie tasche
e guardo i passeri saltellare 
fieri della loro appartenenza alla città,

molto più di noi che abbiamo date di nascita certe e residenza nella vita;
non cerco di prolungare questi tormenti sfilacciati perché sono in cerca di martirio

“chiuso per sfiga” c’era scritto sulla saracinesca della cartoleria,

possibile che sia il solo ad accorgermi che la bocca di un lupo ci ha già divorati un secolo fa
e che siamo barchette in viaggio verso l’ultima curva delle sue viscere?

il Signore non ci ha eletto nemmeno a camerieri 

l’acqua del naviglio raccoglie storie in lingue disarmanti
e foglie increspate dal tempo diventano rifugi per piccoli insetti,
zattere dalle vele di carta.

Che il vento sia più favorevole a loro di quanto non lo sia stato per queste strade,
piene di neve scorticata e di lingue ricoperte di catrame.  


IV

Il giorno soffia sui lampioni 
lasciandosi alle spalle gesti insoliti

il cielo se ne impossessa 
truccandosi di spirali dense di catrame e rabbuiate d’angoscia
fili ingarbugliati alle stagioni,
di cui queste madri cannibali sono portatrici. 

Sopra i tetti rivolti ad est s’inseguono barlumi lattiginosi,

tondi e molli velieri   
che navigano tre le insegne ancora accese
e tra i cocci di finestre demolite dagli anni e dalle troppe notti passate a raccogliere stelle,

i passi schiacciati sulle scale indicano che il conto alla rovescia è cominciato,
i fantasmi ritornano tra i cuscini
e i corpi caldi di odori vengono ricacciati tra gli abiti sgualciti,
indossati con dignità indolente .

La guerra dei dentifrici è come sempre durissima;
apnee da arresto cardiaco e affanni da finestrino segnano il ritmo tra le fermate, 
si salvi chi scende.


V


Ai camini pieni di neve non si può chiedere nulla.
Quando è mattina scendono dai loro tetti come pinguini, 
per portare pane e sapere tra la gente
frutto di una idea distruttrice,
lasciata in bilico tra i binari di una linea scolpita nel gesso;
il primo albero abbattuto per farvi passare simili grandezze
e i più bei ricordi
frullati assieme alle verdure e finiti in un termos.                                                                                                                

Marco Riva

Raccolte differenziate

raccolte differenziate

Poesie della panchina


I

Come petali appesi a un dito
bianchi e caldi di sangue
i giorni si trasformano in mesi e stagioni; 
è l'acqua di un torrente verticale
che scorre una sola volta 
portando con sè le nostre vite 
e che in eterno 
incide la roccia di nome in nome.

II

Io non chiedo niente
non chiedo alle stelle di nascondersi dentro la mia lanterna
anche se i passi sono incerti
non chiedo alla notte di scappare
mentre il buio la divora,
io non chiedo niente
nemmeno di morire.

III

Lo sapevo, si è messo a piovere
i vetri ballano il tip tap senza muoversi di un millimetro
mentre milioni di mani
come fiori
si chiudono per il sonno.

IV

Quando ciò che ti è familiare
diventa simile ai quadri che ti sei portato di trasloco in trasloco
la memoria ha già messo i sigilli al tuo passato.
Il sapore nuovo delle cose ti riempe la bocca, si muove nel tuo sonno
aspettando l'incrocio di due stelle
ancora lontanissime.

V
Il bianco muove per primo
ma il nero è fuggito;
non c'è battaglia su questi campi svuotati
e non ci sono alberi
e nemmeno nascondigli.
Devo sempre ricordarmelo, il pane è l'unica cosa certa della vita.

VI

Se non ti parlo è perchè vorrei parlarti
se non ti cerco è perchè so dove sei.
Lascio che un campanile mi bussi sulla schiena, 
mentre l'orizzonte brucia al grido del tramonto.
Non so cosa mi stanno dicendo questi uccelli
che accompagnano il sole a morire,
non so nemmeno se ce l'hanno con me, ma se dovessero dirmi qualcosa vorrei che fosse una storiella di tassi e di civette, di quelle raccontate da ubriachi, quando il tempo non conta più niente.

VII

Se hai i capelli troppo lunghi e le dite troppo corte comincia a preoccuparti, perchè una notte una treccia ti soffocherà, e un angelo dalle forbici incandescenti
dividerà in due parti la luna, una per quando sei vissuto 
e l'altra per indicarti la tua meta fra le stelle.

VIII

Dove sei?
Ogni che volta che un piccolo aereo passa davanti al sole i miei occhi si accecano per pochi istanti;
il pendolo si fermerà prima o poi,
e ci dirà da che parte stiamo, 
se vicini sulle parti opposte di una mano
o intrecciati fra i rami di due alberi
lontani quanto l'estate e l'inverno.

IX

Non c'è nulla tra le mie mani, il vuoto è un suono di foglie in movimento 
finiti tra le corde di un'arpa scollata.
Corrono come levrieri dipinti sulla tela,
si rincorrono dentro vortici affilati,
all'unisono di trottole lanciate su campi d'asfalto, lontani quanto le comete.
Non c'è nulla tra le mie mani
tranne il silenzio che ho trascritto stanotte
suonato da un'orchestra di grilli.

X

Da una collina si può dominare il mondo
si può guardare verso il basso
e capire quanto è triste vivere lontani dal cielo.
Le città sono laghi di catrame e
e ogni intenzione
finisce per annullarsi nel vuoto di milioni di bocce senz'acqua
dove gli uomini vivono,
credendo anche di avere uno scopo.

XI

Forse sto parlando da solo
o forse è solo che non puoi ascoltarmi,
la mia è una strana malinconia
e non si nutre di silenzio o di dolore.
Ci sono grandi manovre nel cielo oggi
le nuvole si spintonano
e il sole incide solo rari riflessi appuntiti
nella follia miracolosa di questa danza pagana.
Un'ombra a forma di cuore
si forma sul tuo viso.

XII

E' libero chi è solo
è libero chi mangia radici e beve acqua
è libero chi non teme che la terra lo riprenderà.
In una veglia cantata dai serpenti
la mia anima cercherà rifugio tra i gusci della risacca
e asciugherà le ferite dimenticate
col sale delle rocce.
E' libero chi è solo,
è libero chi può essere dimenticato.

XIII

Prova a dormire sotto un albero
prova a toglierti i vestiti
mentre gli altri decidono quanto dovrai lavorare e quanto dovrai vivere.
Prova a baciare una sconosciuta
al massimo tornerai a casa con la faccia arrossata;
prova a sdraiarti sopra un letto d'ortiche
a masticare petali, 
a cantare sottovoce una preghiera inventata.
Dalla tua pelle sbucheranno tanti piccoli vulcani, intonati tra loro per un temperamento di lune e di falene.

XIV

Se non hai pianto da piccolo
piangerai senza tregua da grande
e la tua cascata di lacrime
spazzerà le città come una rete che distrugge i fondali.
Non lasciare mai le cose a metà
perchè quel che manca metterà radici nella tua memoria
e ti ucciderà nel sonno, 
stringendo le sue chele feroci.
Ma non finire mai per sempre qualcosa
o la tua sofferenza ti renderà simile a un bambino che non sa giocare
e che del sole vede soltanto la fronte sfuggente e gli occhi spalancati.

XV

Non sai chi sei ma giudichi con la solennità di un sacerdote
non sai chi sei ma sai come dovrei essere io
non sai chi sei 
non sai perchè, non sai quando
non sai delle cose finite e di quelle infinite più di quanto non ne sappia io.
Non puoi aggiungere neanche un colore alla mia tavolozza, la vita
non si intona alle tue calzette ricamate
confortati con la tua coscienza,
l'avevi messa sotto vuoto tanti anni fa,
basta solo controllare la scadenza.

XVI

Ci sono gli alberi piegati dal vento
e i miei capelli che spingono in senso opposto
per un'idea sballata ch fa vibrare la mia testa in un emisfero lontano.
Ci sono bambini che arrivano in questo giardinetto rotondo, appena usciti dall'asilo con le loro mamme giovani.
E poi ci sono le formiche,
immortali e  così fragili.
Quando ci saremo tutti estinti
e la Terra si sarà dimenticata di noi,
una di loro canterà un inno alla libertà,
con note soffiate nell'erba.

XVII

Siamo nati sotto un sole infreddolito
vestiti di una fibra d'oro ancora più gelida,
siamo noci nascoste da uno scoiattolo,
dita finite per saltare da un tasto all'altro 
di una melodia scritta contro di noi,
imprigionati in un ritornello brutto quanto un colpo di tosse in una tuba.
Non ci hanno insegnato canzoni
e questo ci condannerà e ci renderà ancora più deboli.

XVIII
Se potessi decidere la forma delle nuvole
disegnerei biscotti rotondi per l'alba,
rondini e api per il pomeriggio,
e un po' di grosse lumache per la sera,
sazie di foglie e lattughe.
La notte invece me la porterei nel letto.

XIX

La linfa degli alberi è il diapason nascosto di tutti i suoni,
e vibra col centro della Terra
e nel centro dei secoli,
chiamando per nome ogni ruscello e ogni essere appena rinato.

XX

E' un fuoco che si accende dal silenzio
mostrando le mani,
un passo di puledro studiato su di un leggìo;
un fiocco creato dal vento s'è aggrappato
alla mia giacca e tira 
perchè io balli con le fronde della tramontana,
un valzer monco e spaccato, bianco come un osso finito in una pozzanghera.

XXI

Abbracciati alle coperte, ai cuscini
abbracciati alle poltrone,
ai sedili di un treno, ai lampioni quando è buio e le mani sono infreddolite.
Abbracciati ai nostri vestiti
e a quelli degli altri, vuoti e stirati con poca cura, 
abbracciati alla propria solitudine
agli errori 
abbracciati alle cose dimenticate e così preziose,
abbracciati agli alberi prima che diventino mobili

abbracciati sempre
senza nessuna ragione.

XXII

Non ci sono alternative allo sciacquone
o la tua faccia verrà riconosciuta da tutti;
io invece guardo una bambina seduta su di un prato,
e penso che se ci sono giorni per morire dovrebbero assomigliare a questo.

XXIII

Osservo il volo di una rondine
per capire di quali binari invisibili non potrò mai servirmi, 
essendo inadatto al volo.
Guardo un francobollo davanti al sole
e scopro il mio volto in filigrana
e il valore della mia vita espresso in centesimi.
Scrivo sopra fogli portati dal vento,
da un infinito orizzonte che potrebbe essere la mia vecchia casa,
o una finestra dalla quale un giorno uscire
senza lasciare nemmeno un biglietto.

XXIV

Una radice bianca spunta dalla terra
e mi fa inciampare, ricordandomi che il regno sotterraneo esiste davvero.
Così guardo in alto
e cerco di immaginarmi come sarà quando finirò diviso in due, 
concime da una parte
e musica dall'altra.
La cosa più difficile è mettere insieme questi punti così lontani,
noi che siamo compromessi neppure ben riusciti.

XXV

Sarà il segno di una stilografica
la soglia sulla quale i giorni moriranno 
ripiegandosi come bucato sopra fili improvvisati.
Un'insegna si gonfia lanciandosi contro le stelle,
danza in una sequenza elettrica
e ritorna dentro il suo guscio
concentrandosi tutta in un punto.
La realtà è pronta di nuovo per contemplarsi e svanire.

XXVI
L'estate s'è distesa come un braccio gettato sulle spalle,
cominciando a disegnarle a matita e finendo ad acquerello.
Le colline sono roventi ma senza affanno,
l'aria è tersa e non cerca che un rifugio.

XXVII
M'aggrappo alla vita come a una cima,
risalgo da questo crepaccio contando i centimetri e contando i giorni
sapendo che alla fine di questi
potrò vedere da quale roccia sono stato gettato di sotto
e potrò sgonfiare il petto finalmente,
di nuovo felice e di nuovo senza nome 
e senza senso.

XXVIII
La mia testa è troppo grande per essere nascosta in una tasca 
e il gesso col quale disegno conchiglie oscure sopra altre conchiglie è assolutamente bianco.
Mentre i giochi di bambini svaniscono nelle penne a sfera e tra i fumi delle città.
Non parlo con nessuno perchè nessuno sa parlare
e nessuno sa che la poesia dovrebbe stare soltanto sulla carta,
senza essere nè declamata nè letta.
Provate a mettere qualche verso strappato da un libro in mezzo a un quaderno di fogli bianchi
e vedrete che dopo qualche tempo,
come una muffa velenosa,
la parola si sarà impadronita del vuoto
colmando col "senso" l'unica cosa sensata.

XXIX
E' una freccia la vita
e se non la schivi può ferirti,
se però la scansi passa che nemmeno te ne accorgi.

XXX

Ho perso la rabbia che mi faceva bello,
la schiuma in pancia che sfrigolava
pronta a corrodere ogni cosa.
Ho anche perso il mio cappello
e la testa che ci avevo fatto entrare per tanti anni.

XXXI

Più le cose sono belle e importanti
meno sono costose,
più sono inutili  più saresti disposto ad ammazzare per averle.
Il cielo non costa nulla, l'aria nemmeno,
ma per farti del male devi pagare,
per peggiorare la tua vita, che poi è il desiderio più grande che hai,
devi indebitarti fino all'ultima goccia
e così starai male da morire e sarai contento.
Più ti riempi la pancia di schifezze e più paghi;
perchè ti vergogni se mangi un piatto di ceci?
Ti senti povero?
Non puoi raccontarlo in giro?
Fai a meno di tutto e avrai tutto
e quando sarai veramente povero non avrai più bisogno di niente.

XXXII

Alle dita non si racconta nulla,
si possono solamente ascoltare e accudire.
Dove tutte le nostre note sono passate 
assieme a tutte le parole,
senza lasciare altro.

XXXIII

Ma dove sono finite le tue ali sbagliate
il sole smontato e mai più rimesso insieme
le tue gambe indolenti
fresche di rugiada e di pini?

 

 

Madonna della neve


I

I semi di una grande arancia dormono come gocce svuotate,
soffiate da una sfera 
ai bordi di una processione di nuvole.
La linea del giorno le trattiene senza respirare
e gonfia di latte le nostre tasche.


II

Una danza di foglie ricuce il suo vestito sonoro
e ogni essenza 
rientra nel suo privato dominio,
nel segreto del ventre.

III

Respirando polvere di nocciolo e d’ossa.
Il segreto dei calici rigogliosi 
svuotati dalle tempeste
e dei di profumi inaciditi,
sigillati in forma di suppliche.

IV

Ai complici della mia vita 
chiedo di sotterrare un seme per ogni giorno venduto,
soffiando sulla sua fiamma immaginaria anche di notte
per tre mesi e un giorno, 
in modo da ristabilire il ciclo del sole
sparigliato da questi ombrelli.


V

La luna e già estinta, alta
nera di polvere e di morte.


VI
.
Forse non esistono che cieli nascosti in soffitta,
e fuochi accesi nel freddo dei semafori; 
sono i tuoi abiti chiazzati di nuvole,
i tuoi pesci di porcellana.
VII

Ascolto questa litania d’autunno 
cantare a mani spalancate le radici d’ ingranaggi celesti 

pietre intonate a campane 
rocce infrante sulle cupole di chiese straniere

baciate nel fumo di un pasto di sale.

 

VII

Mentre un raccolto di stelle veniva caricato in cielo,
come un vestito di gigli

fra i palmi arrotondati 
e fughe diagonali.

 

 

Un Pomeriggio a levante

 

I

Una piazza divelta

un urlo schiacciato sottovetro,
nei suoi angoli segreti 

dove la sfera del cielo viene capovolta
seminando schegge di grandi e piccoli caroselli di barchette

col buio a bere dalle pietre che affiorano all’alba
sulle coste del sonno;

presto si richiudono in un calice.

 

II

Vi sono stelle nate al di sotto delle nuvole

e lune lanciate come dadi
dentro bicchieri d’ossa risonanti

acute sequenze d’ali
e lampioni dagli occhi fissati alla strada

una ruota di pane cade verso il mattino.


III

Due rondini hanno marcato d’azzurro la linea del sole
curvando di pari gradi la luce dell’est e quella dell’ovest

notte e giorno sono mani congiunte

palmi gemelli,
come occhi sospesi a verricelli celesti.

L’arco che il giorno ha scoccato verso l’inverno 
per un solo attimo

è una freccia pietrificata nel tempo,
ove tutto è già stato
senza che nulla sia mai accaduto.


IV

Le nuvole che voglio
sono anelli di marmellata

pietre scandite ai rintocchi della mia ultima ora
scintille rimbalzate su dita tessute di canapa e d’umori svaligiati.

I tuoi fianchi
sono la scorza rovesciata di un’arancia immatura
e per questa ragione,
brillano come pietre d’un vulcano estinto

sporcato della tua voce 
e della tua testa di animale sgualcito,

inumidito nel ventre di una lumaca.


V

Le tue labbra si sono addormentate sulle pareti di un bicchiere

un cerchio segreto
sul quale il disco di una giostra
scandisce il suo tempo privo di stagioni,
isole senza radici.
.


VI

Il suo vestito 
è un prisma incantato sulla nota più lunga del sole
e la fiamma gelida delle sue tasche 
in inverno
è leggera come sabbia,

aria che risuona fra le ance acute delle sue dita
cancelli d’ossa
e campane intonate al mattino.

Si può ancora dire “notte”
senza vedere il pugno che trattiene la luna a mezzogiorno

e senza sapere
o desiderare altro che il tempo già trascorso.

VII

Le mie vene 
sono un fiume strappato ad una pianura di cartone
al di sotto di foglie scambiate per nuvole

lungo spalle percorse da capelli annodati a trapezi
alla pagina “uno” di costellazioni spontanee

di corvi imbiancati di zucchero
e falene indovine.


VIII

Un secchio di colla è sufficiente per tenere ferma la luna,
visto che il suo peso

è la somma di tutti gli spazi non ancora accaduti;
le finestre di un pentagramma senza chiavi
e senza qualunque nome.

Era una croce ma s’è trasformata in cerchio

e ha cominciato a rotolare 
come una nota che rincorre tutte le ottave che il cielo s’è nascosto in tasca
cantando il suo nome dal futuro al passato

 

 

Cuore d'insetto

I


Siamo a milioni 

e passeggiamo su questo catrame se le nuvole non s'addormentano,
fiacche o svogliate

come le teste avvolte nella miscela inebriante dell'ora di punta

nell'attimo in cui il sole scivola in un camino largo sì e no 
due metri.

Indosso la solita  giacca, 
mentre il vagone si riempie di gente; 
quella coi capelli rossi e gli occhi slavati
mi dice che ho una bella bocca 
e m'invita nel suo appartamento.

La camicia ha la peggio;
sono ancora vestito
e il mio ventre diventa il bersaglio verso cui indirizzare il piacere di questi  minuti esaltanti,
non ci baciammo neanche.

Giro il cucchiaino, metto altro zucchero
rigiro ancora, niente…

ho ancora il suo odore addosso
e il mio caffè strilla in una lingua di soli epiteti.

Seduti sulle sedie in plastica dei bar
si può meditare su cose di media importanza 

il dentifricio mi ha punto la lingua,
come un insetto,
una fredda chiave per menti infelici.

La donna sta dormendo, ma senza sognare;

sul soffitto 
le immagini dei finestrini dei treni corrono come fotogrammi svuotati

non c’è nulla da raccontare  
e nulla per cui poter piangere;
mi butto nella piega del suo braccio
ancora vivo.

 
                                            II


Le briciole di queste strade non hanno nessuna memoria,
rivestono la notte 
trasformandosi in sciami d’insetti
ma senza nessuna meraviglia

e senza rimorso.

La mano stretta sul cambio
in segreto 
mentre chiamo nomi di persone sconosciute,
occhi che possano vedere al di là del mio parabrezza
oltre i corpi che popolano il buio,
al di qua di tutti questi abissi.


  III

Sulla strada che da periferia va a periferia
il filo grigio dei miei pantaloni s’è aggrappato ai balconi di cemento e ai tetti sgualciti.

La nota più acuta che una serata d’autunno abbia mai prodotto 
si estende ora tra me e le case e tra le case e il fondo dimenticato di questa cassa chiamata mondo,
stordita e melanconica, 
ricolma di gazze dalle ali di carta. 

Sento le gambe indurirsi e il respiro farsi più triste,
il cuore non ne vuole più sapere:
ha detto che vuole scendere di lì 
e andare sotto un ombrellone
da qualche parte.

L'affare rosso che ho nel petto batte rintocchi da una vita  
ma la mia stanchezze è un valore approssimativo, 
fissato sulla tacca "zero" di una meridiana illuminata da un neon.

Il buio giace sul filo della mia lama-corona:

gli occhi hanno già veduto,
provveduto...
 
                                              IV


L’odore dei negozi di merceria abita ancora la mia testa,

rubavo intimo femminile quand’ero ragazzo:

ascoltavo il suono lieve della seta sui polpastrelli e quello irregolare dei pizzi,
gli elastici.......

i rapporti con i tessuti hanno tutti una serie di casi.

Ora sono qui,
con la mia erezione in tasca 
all’interno di un autobus carico di odori, di rancori. 

La testa della signora galleggia nel vuoto, proprio sotto il mio naso;

spingo un po'
ma non se ne accorge:

Il nostro veliero però ha un sussulto e poi si ferma;
tutti giù 
s'è guastato,

la tempesta pretende il suo tributo e lancia coppie di dadi fino al cielo,
la pioggia tiene il banco.
   
                                         
VI


Il sole passa per il rettangolo nero della finestra con una fretta inconsueta

piegando il cerchio delle stagioni fino a strane latitudini,
tutte vive dentro i miei occhi

fino all’origine di una curva più amara e veloce,
come se tutto il sale che sta disciolto in mare fosse venuto a morire sul mio volto

non trovando che relitti e spiagge pettinate malamente.
 

 

 
                                            VII


Trovo che i resti di una matita
abbandonati sopra uno straccio
conservino ancora qualche segreto e mi sforzo di descriverlo 
usando parole tratte da luoghi inconsueti.

Un grosso scatolone con la scritta "fragile":

la vita l'ho ripiegata con cura in mille parti uguali
e rispedita al mittente.

Dalla finestra 
vedo un bel paio di stinchi che sbucano da una sottana;

sono costretto a sporgermi oltre il davanzale
e a respirare freddo.

Guardo con gli occhi spalancati e la mia lingua di camaleonte:

la portiera dell'auto fa un rumore sordo 

e i gas di scarico picchiettano sulla mia testa
come piccole farfalle difettose.


VIII

Gli occhi mi si chiudono anche di giorno,
vedo bambini azzurri dietro le palpebre 
e sento che dentro il petto
stanno avanzando legioni intere di vermicelli famelici:

il sudario che mi è stato destinato
prende la forma dei miei blue jeans.

 

 

 

Un Pomeriggio a levante
I

Una piazza divelta

un urlo schiacciato sottovetro,
nei suoi angoli segreti 

dove la sfera del cielo viene capovolta
seminando schegge di grandi e piccoli caroselli di barchette

col buio a bere dalle pietre che affiorano all’alba
sulle coste del sonno;

presto si richiudono in un calice.

 

II

Vi sono stelle nate al di sotto delle nuvole

e lune lanciate come dadi
dentro bicchieri d’ossa risonanti

acute sequenze d’ali
e lampioni dagli occhi fissati alla strada

una ruota di pane cade verso il mattino.


III

Due rondini hanno marcato d’azzurro la linea del sole
curvando di pari gradi la luce dell’est e quella dell’ovest

notte e giorno sono mani congiunte

palmi gemelli,
come occhi sospesi a verricelli celesti.

L’arco che il giorno ha scoccato verso l’inverno 
per un solo attimo

è una freccia pietrificata nel tempo,
ove tutto è già stato
senza che nulla sia mai accaduto.


IV

Le nuvole che voglio
sono anelli di marmellata

pietre scandite ai rintocchi della mia ultima ora
scintille rimbalzate su dita tessute di canapa e d’umori svaligiati.

I tuoi fianchi
sono la scorza rovesciata di un’arancia immatura
e per questa ragione,
brillano come pietre d’un vulcano estinto

sporcato della tua voce 
e della tua testa di animale sgualcito,

inumidito nel ventre di una lumaca.


V

Le tue labbra si sono addormentate sulle pareti di un bicchiere

un cerchio segreto
sul quale il disco di una giostra
scandisce il suo tempo privo di stagioni,
isole senza radici.
.


VI

Il suo vestito 
è un prisma incantato sulla nota più lunga del sole
e la fiamma gelida delle sue tasche 
in inverno
è leggera come sabbia,

aria che risuona fra le ance acute delle sue dita
cancelli d’ossa
e campane intonate al mattino.

Si può ancora dire “notte”
senza vedere il pugno che trattiene la luna a mezzogiorno

e senza sapere
o desiderare altro che il tempo già trascorso.

VII

Le mie vene 
sono un fiume strappato ad una pianura di cartone
al di sotto di foglie scambiate per nuvole

lungo spalle percorse da capelli annodati a trapezi
alla pagina “uno” di costellazioni spontanee

di corvi imbiancati di zucchero
e falene indovine.


VIII

Un secchio di colla è sufficiente per tenere ferma la luna,
visto che il suo peso

è la somma di tutti gli spazi non ancora accaduti;
le finestre di un pentagramma senza chiavi
e senza qualunque nome.

Era una croce ma s’è trasformata in cerchio

e ha cominciato a rotolare 
come una nota che rincorre tutte le ottave che il cielo s’è nascosto in tasca
cantando il suo nome dal futuro al passato

 


 

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